L’ambiente agrario in età medievale in un’area di risorgive
Questo percorso si muove all’interno di un paesaggio agrario modellato in età bassomedievale fra alta e bassa pianura dove furono costruiti i villaggi di Ranzano e Romano e dove nacque e scomparve il paesino di Orzaie. Qui i terreni presentano diversi gradienti di umidità, fino ad arrivare all’ambiente di risorgiva, habitat che verrà visitato alla luce della sua grande importanza per diverse specie faunistiche.
Il punto di ritrovo è presso l’Agriturismo al Lago Orzaie in Via Guglielmo Oberdan, 78/A Fontanafredda il 23 Ottobre 2022 alle ore 9:30
C’è un ampissimo parcheggio nei pressi del laghetto.
Invia la richiesta di prenotazione a: info@magredierisorgivefvg.eu
oppure chiama: +39 340 8645094 (Moreno)
L’iscrizione all’escursione solleva gli organizzatori da ogni responsabilità derivante dalla partecipazione all’iniziativa per eventuali incidenti o infortuni
Tempo di percorrenza: 7 ore
Numero massimo di partecipanti: 40 persone
Pranzo: pranzo al sacco
Un inquadramento geografico
Il villaggio scomparso di Orzaie
Nel medioevo il villaggio era sorto su un dosso alto su un rio che poteva essere attrezzato con un mulino.
Ci conferma il fatto che ad Orzaie un tempo ci fosse un piccolo borgo un documento del 1286 con il quale il patriarca di Aquileia investiva Filippino di Jacopo della Torre di un maso, quindi di un insieme di residenza agricola, annessi e terre. Tredici anni dopo la località veniva descritta come “Villa Orzali” dimostrando una struttura di un certo numero di masi. Il 13 luglio del 1389 il patriarca Giovanni riconfermava i diritti del capitanato di Sacile sui villaggi di Vigonovo e Orzaie.
I villaggi posti a monte non erano dotati di molini per cui per macinare o si andava alle Orzaie oppure a Polcenigo o Porcia. Per contro il villaggio aveva pochi terreni adatti per i seminativi e lentamente la coltivazione dei cereali entrò in crisi è provocò la crisi del villaggio che si spopolò e finì per essere unito a Vigonovo e quindi a Sacile. Il mulino rimane anche oggi in forma di rudere, mentre delle abitazioni originarie si riconoscono solo tre edifici di tradizione ottocentesca.
Il 13 settembre del 1572 il proprietario del mulino, Domenico q. Marco de Orzaleis cedeva per tre anni in affitto a Melchiorre e Battista, padre e figlio, di Francenigo, la sua parte del mulino posto alle Orzaie e la sua parte di terre, case e prati”. Il mulino era ormai l’elemento principale del vecchio borgo ormai spopolato e la struttura era in mano a diversi rami della famiglia. Rimaneva ancora traccia delle vecchie unità abitative dei masi di Orzaie, ma le condizioni delle architetture erano sempre più precarie mentre rimanevano importanti i complessi dei campi coltivati. L’8 maggio del 1590 “sr Menego del q. barba Cecco della Camilla de Renchi habita alle Orzaie sul maso del Magnifico et eccell.mo sr Dottor filermo sotto viconovo sotto Sacile”. Ormai l’identità del villaggio era sostanzialmente scomparsa.
Non diversamente il 7 marzo 1551 anche il maso dei Burigana era stato affittato a “Lunart fiol de daniel de piaza da san quirin al presente habitante in le orzaie sopra il maso sive terre de sr renaldo burigana da san fior è intrado visin sotto il regimine de baptista del todesco da talmasson merìga del comun de viconovo”.
Nel 1704 Francesco della Gatta affittando il mulino a mistro Antonio Trevisan, ancora una volta da Francenigo, precisava che aveva “tre ruote, pestapanizzo, tre cassoni e buratadora, con annessi brolo, casa di muro coperta di paglia e stalla”.
Qualche volta i mugnai delle Orzaie entravano in conflitto con la popolazione di Vigonovo. Il primo agosto del 1597 il comune di Vigonovo vietò a tutti i cittadini di andare a macinare da Hieronimo delle Orzaie pena che “perda la biava”.
Da qui ci muoveremo alla volta della Valgranda famosa per la tradizione che vorrebbe che la popolazione di Romano si sia salvata dai Turchi alla fine del ‘400 per essersi nascosta in mezzo ai boschetti e alle paludi delle zone basse e umide. Lungo questa strada raggiungeremo il villaggio di Romano che è particolarmente interessante da un punto di vista insediativo con la sua strada canale che presenta edifici a sud a filo stradale ed edifici a nord lontani dalla strada.
La storia della Valgranda
Diversi anni fa Nilo Pes ha raccolto la memoria di una narrazione che si riferiva all’incursione dei turchi e alla salvezza garantita dalla palude e dai boschi fitti della Valgranda.
La Valgranda fu anche la salvezza dei nostri di Romano, quando ci fu la scorrerìa dei Turchi.
L’atmosfera si alleggeriva e c’era qualche respiro di sollievo.
– Sì, salvezza nella scorreria del 1499. Quella che ancora adesso si ricorda ad ogni 30 settembre con trecento rintocchi a morto della campana piccola. Trecento, infatti, i nostri uccisi o portati via, ma neanche uno di Romano. Sapete perché?
Tutti sapevano, ma tutti volevano sentirselo dire.
– Perché la Madonna li aveva avvisati! Sì, la sera prima era apparsa sul gelso che stava davanti alla chiesa; era apparsa ad un fratellino e ad una sorellina che tornavano dal pascolo con le pecore: – Andate ad avvisare per le case che domani arrivano i Turchi!
I piccoli andarono, gli credettero e tutti del paese, uomini, donne, vecchi, bambini, vaccherelle e pecore, si rifugiarono in Valgranda, nella benedetta Valgranda dove i cavalli dei Turchi non potevano addentrarsi; ebbero anche cura di togliere subito le plance, i tavoloni che permettevano di inoltrarsi negli acquitrini. E tutti si salvarono.
Quello fu un miracolo e la chiesa di Romano venne chiamata “dell’Apparizione” e solo dopo la battaglia di Lepanto divenne “del Rosario”, come è ancora oggi”.
La chiesa di Romano
E’ probabile che in età medievale a Romano ci fosse un piccolo luogo di culto ma nessun documento ne parla. Sappiamo che alcuni abitanti di Romano nel 1562 “se obliga pagar ogni anno un quartarol de formento alli zuradi de la fabrica de Santa Maria de Vigonovo” che era la chiesa parrocchiale. Per la prima volta la chiesetta la troviamo citata nel 1516 quando era governata da “frate Jacobo capelan habitator à la Madona de roman chxiesia”. Solo successivamente assunse la denominazione del Rosario. Si trattava di una cappellania minore, ma che era un segno del fatto che la popolazione aveva un discreto benessere.
L’idea di una rifabbrica era già presente alla fine del XVI secolo e nel 1603 si cercarono aiuti da Roma per ottenere delle indulgenze che poi sarebbero servite per movimentare l’attenzione verso la ricostruzione della chiesa. Il 14 gennaio del 1607 viene data una caparra a M.r Muraro Ber.n per edificare la chiesa a sostituzione di una più piccola e antica. Nel 1617 si procedette alla costruzione del campanile completato nove anni dopo con l’acquisto della campana.
La chiesa ha una semplice aula rettangolare con un’abside profonda che si contrappone alla porta di ingresso che guarda la campagna ed è segnata da due lunghe finestre e un oculo centrale. Una cornice dentellata di mattoni rossi corre sotto la linea di gronda. Nel “1652 die 10 Junii Anniversarium q. Baptistae Nadino qui reliquit ecclesiae B V de Romano frumenti starium unum” dimostrando che per garantire i servizi e la manutenzione dell’edificio gli abitanti avevano costruito un importante beneficio.
Successivamente si attrezzarono gli arredi interni che risentono del barocco locale. L’altare maggiore è di Giambattista e Andrea Ghirlanduzzi da Ceneda ed è datato 1662. Si tratta dell’opera artistica più importante e con la esuberante espressività delle opere in legno dorato dei Ghirlanduzzi era destinata a ospitare la statua della Madonna con bambino tra i santi Domenico e Caterina forse di Giacomo Onesti.
A Sinistra un altare minore barocco in legno dorato attribuito ad Andrea e Giovanni Battista Gghirlanduzzi ospita una pala del 1653 di un pittore minore che rappresenta san Floriano al centro tra San Daniele, S. Antonio e San Carlo Borromeo. Sul lato destro un altro altare coevo (1662) dei Ghirlanduzzi in un apparato in legno dorato con forme barocche accoglie una pala che raffigura San Giuseppe con il bambino nudo tra le braccia all’interno di un paesaggio ideale.
La “Stradella” come confine paesaggistico
Se è vero che lungo la linea delle risorgive nacquero gli insediamenti medievali alcuni storici credono che la strada più antica fosse però più alta, in una regione asciutta e facilmente transitabile. Questa direttrice va identificata nella cosiddetta Stradella che collegava Polcenigo con Roveredo e che ancora oggi può essere percorsa con qualsiasi tempo perché si snoda su terreni ben drenati.
Le terre più preziose per la comunità, quelle che fornivano la maggior parte dei prodotti cerealicoli erano poste proprio tra la strada bassa e la stradella. Al di sopra, come mostra bene la mappa ottocentesca c’era la regione caratterizzata dalle ‘tese’ cioè da piccoli insediamenti temporanei e privati che funzionavano come gli stavoli in area alpina. Questi campi coltivati avevano eroso le originarie terre pubbliche e permettevano alle famiglie più ricche di raccogliere fieno presso le tese e di ospitare animali al chiuso pur rimanendo vicino alle terre del pascolo.
La stradella di fatto si configura ancora oggi come un confine paesaggistico tra quelle che erano le terre private e le grandi praterie aride.
Le strade bianche che la intersecano sono ancora quelle antiche che attraversavano le praterie comunali alla volta di Aviano, Roveredo o Maniago, mentre è evidente il contrasto tra l’orientamento degli ordinati campi medievali, stretti e lunghi, e quelli più grandi e non orientati che ricordano le espansioni delle proprietà private ai danni delle terre collettive.
Il villaggio di Ranzano
Ranzano sembra riconoscibile nel Renzano citato in un documento del 1274 relativo a concessioni date dal patriarca d’Aquileia Raimondo della Torre. L’anno dopo anche alcuni di Aviano ricevevano un terzo di maso dal patriarca sempre a Renzano. Sappiamo che 1366 il patriarca Marquardo investì Nicolussio di Prata di alcune decime a Vigonovo e Ranzano. Successivamente vedremo entrare il villaggio nell’orbita del controllo di Sacile.
Il villaggio di Ranzano ci viene mostrato fin dalle più antiche carte come un impianto urbanistico centrato su un incrocio di strade con un aspetto pianificato. Una struttura urbana a croce quasi perfetta anche se oggi la grande mole della chiesa novecentesca tende a predominare sulla porosa distribuzione delle case che dal medioevo si sono generate attorno al crocicchio. Attorno al centro del paese il toponimo “maso” ci ricorda che il nucleo era composto dalle tradizionali aziende agricole di tradizione medievale.
Sottoposta a Vigonovo questa frazione usufruiva della chiesa di Romano, ma nel XVIII secolo fece il possibile per emanciparsi. Nel 1709 si concedeva la licenza a Giovanni Andrea Pasqualigo di fabbricare la chiesa o oratorio di Ranzano. Non si fece nulla di questo intento e la popolazione dovette aspettare due secoli per avere un proprio edificio religioso. Il palazzo dei Pasqualigo era invece la sola costruzione fuori scala nell’assetto minuto del villaggio. La mappa del 1741 indica con una certa monumentalità i due edifici che delimitavano una ampia corte e che erano caratterizzati da portici al piano terra e da un inusuale secondo piano. Oggi questa importante architettura è scomparsa.
Pietra Pagana e il capitello di San Osvaldo
Pietra Pagana era un importante segno di confine tra i territori ceduti al vescovo di Belluno dall’imperatore ed è esplicitamente citata nell’investitura del 10 settembre del 963. Nella riconfinazione dell’8 agosto 1349 tra Polcenigo e Caneva, dalla quale dipendeva Ranzano, si precisava che l’antico confine si muoveva lungo la direttrice segnata dalla pietra Pagana, la sorgente dello Schiavozit e poi proseguiva lungo il rio fino al Livenza.
Nel 1447 il Vescovo di Belluno rinnovò l’investitura ai di Polcenigo precisando che il confine scendeva da Prato Paderno ai colli selli di campagna a Pietra Pagana, a fontana Sambuci (la sorgente dello Schiavozit) e poi al Livenza.
In questa zona sorgeva anche una chiesa campestre dedicata a San Giorgio e che qualcuno vorrebbe sostituita a fine del Settecento dall’altarino di San Osvaldo. E’ più probabile però che qui ci sia stata una lenta trasformazione della devozione se ancora alla fine del settecento San Osvaldo veniva disegnato come un piccolo edificio ad aula. Nel catasto del 1807 si può notare come l’edificio fosse stato ridotto a un semplice altarino e la pietra pagana era stata ridotta ad un anonimo “termine”.
Il Rio Schiavozit e il confine altomedievale
Il rio Schiavozit in alcuni documenti viene definito Sambuco ed era un semplice corso d’acqua di risorgiva affluente del Livenza fino a quando non fu identificato come un confine quando l’imperatore trasferì il territorio di Polcenigo al Vescovo di Belluno nel 963. Successivamente, almeno a partire dal 1349, si precisava che il confine tra Polcenigo e Caneva (Vigonovo era sottoposto a quel castello) coincideva con il corso del Rio Schiavozit fino alla sua immissione nella Livenza. Rimanevano nella zona ancora molte antiche consuetudini di uso pubblico sulle bassure del fiume. Nel 1606 le terre pubbliche di Schiavozit potevano essere usate da quelli di Vigonovo, ma anche da quelli di Dardago e di Polcenigo come memoria di un antico Compasquo.
Le aree attorno al rio si descriveva un’area depressa, umida e prativa. Forse segnata da boschetti umidi. La mappa del 1741 ci restituisce questo ambiente pastorale con intense tinte del verde, mentre oggi prati umidi e boschetti si concentrano nelle parti più basse della zona con coltivazioni che quasi toccano lo Schiavozit. Ancora oggi il confine tra Polcenigo e Fontanafredda segue la storica linea.