Gli insediamenti bassomedievali lungo la via d’acqua del Livenza.
Sacile nasce come cittàverso la metà del XII secolo per decisione esplicita del Patriarca di Aquileia, principe della Patria del Friuli. Il desiderio era quello di costruire una imnportante struttura portuale che fosse in collegamento con Venezia e, attraverso il bellunese, con il Nord Europa. Viene scelto come luogo un punto particolare del fiume raggiungibile con le barche, ma anche attraversato da una strada. Nell’escursione cercheremo di percepire resti e trasformazioni del paesaggio medieval in un contest ambientale che è quello dei fiumi di risorgiva.

Il punto di ritrovo è presso il parcheggio di via Giosuè Carducci a Sacile il 21 Maggio 2023 alle ore 09:30

C’è un ampio parcheggio gratuito dove saranno riaccompagnati gli autisti alla fine dell’escursione.

 

Invia la richiesta di prenotazione a: info@magredierisorgivefvg.eu
oppure chiama: +39 340 8645094 (Moreno)

L’iscrizione all’escursione solleva gli organizzatori da ogni responsabilità derivante dalla partecipazione all’iniziativa per eventuali incidenti o infortuni

Tempo di percorrenza: 6 ore (escluso il pranzo)
Numero massimo di partecipanti: 45 persone
Pranzo: pranzo al sacco

Un inquadramento geografico

L’escursione si concentra sulla parte alta della via d’acqua che era il Livenza. Qui verso il 1150 sorse la città di Sacile per volere del Patriarca di Aquileia.
Durante la visita cercheremo di capire come si sviluppò e crebbe la città e come si pervenne poi alla crisi delle attività portuali nel ‘500.
Poi scenderemo lungo il fiume per visitare quello che resta di una motta fortificata costruita a sud della città per ragioni militari e riscoperta pochi anni fa. Da qui raggiungeremo la confuenza del Meschio nel Livenza e risaliremo l’argine raggiungendo la zona dello scomparso castello di Topaligo e poi i luoghi dell’altro castello scomparso, quello di Fossabiuba. Avremo così modo di leggere gli effetti dell’inurbamento delle famiglie signorili precedenti alla costruzione della città, i di Topaligo, i del Ben, i Pelizza che avevano la loro sede nell’isola del castello di Corte, a fianco del duomo di Sacile. L’escursione racconterà la storia di un paesaggio agrario in grande trasformazione nel tempo e impegnato anche da progressive espansioni urbane.

Valle della Paisa


La Paisa è un piccolo corso d’acqua di risorgiva con una portata relativamente costante durante l’anno. Durante il suo breve tragitto dalle sorgenti della Valonga a Fontanafredda cambia il suo nome in “Saccone”, Acqua di Molino a San Giovanni, e Paisa nel tratto inferiore. Quando il Livenza si alza in occasione di piene anche il piccolo affluente esonda su una superficie molto ampia. Questo carattere idraulico ha nel tempo tenuto lontane le espansioni urbane e quest’area è ancora oggi piuttosto caratterizzata da un ambiente umido e fluviale. Poco prima della confluenza della Paisa nella Livenza le portate costanti del fiume convinsero gli investitori a costruire un opificio idraulico per la produzione della carta, appunto una cartiera che oggi si può riconoscere negli edifici più vecchi dell’area della “Mineraria”. Sacile è una città industriale cresciuta sul fiume ma che si è espansa molto lungo le principali direttrici trasportistiche che seguono le strade di interesse interregionale costruite all’inizio del XIX secolo. La depressione della Paisa, alluvionata di tanto in tanto, è una grande area di agricoltura che si insinua fin quasi in centro alla città ed è attrezzata con una pista ciclabile che segue proprio il corso d’acqua. All’interno di questo ambiente sono tipiche le essenze ripariali della bassa pianura che compongono figurazioni arbustive morfologicamente complesse e variegate da un punto di vista cromatico.

Stampa settecentesca che mostra il processo di produzione della carta in foglio

Castelvecchio

La prima zona che incontreremo è il nucleo della città chiamato Castelvecchio, ma in realtà corrisponde alla parte urbana disegnata su due strade parallele. Una delle due fu prevista porticata e quindi era l’anima commerciale dell’antica Sacile mentre la seconda probabilmente era preesistente e conduceva al ponte che passava la Livenza in occasione del Castello di Corte, residenza e simbolo della feudalità della famiglia Pelizza. La città era completamente murata e una porta permetteva l’accesso da Sud mentre a sud est c’erano le case della milizia. La porta principale per uscire dal borgo urbano è quella che conduceva al castello di Corte. Altri due importanti varchi collegavano la parte residenziale della città alle strutture portuali ricavate sull’altra isola.

Questa mappa seicentesca fa comprendere quale fosse l’originario corso della Livenza, in azzurro, e come siano state costruite le tre isole con la costruzione di canali artificiali in verde.

Castelvecchio nel 1807

Da Campo Marzio verso l’isola del Castello di Corte.

Il porto

L’isola posta a monte di Castelvecchio e oggi considerata il cuore della città, nel medioevo concentrava qui le principali funzioni del porto commerciale. Lungo la riva del canale della Pietà attraccavano le barche e le merci venivano tirate sulla riva fortemente inclinata. Solo a partire dal ‘500 la riva portuale fu utilizzata per costruire una schiera di palazzi aggiornati nel linguaggio dell’architettura del rinascimento veneziano.
Su questa piazza stava una torre del capitano della città e la loggia pubblica. Questo fu possibile solo quando si costruì un muro di protezione interrotto solo in occasione delle due porte che immettevano nella campagna.

L’isola del porto nel 1807

I borghi trecenteschi

All’esterno della città murata si concentravano tutte quelle funzioni che era troppo difficile e pericoloso portare all’interno. Le officine dei fabbri causa di incendi, ma anche gli ospedali e le locande. I forestieri si preferiva ospitarli all’esterno delle porte urbane. Lentamente lungo le strade di uscita si costruirono dei borghi molto compatti che alla fine si dovettero cingere con la terza espansione di mura.

Percorreremo il borgo che conduceva alla porta trevisana identificando il luogo dove in antico passava il fossato del muro.

Il Borgo di Sant’Andrea nel 1807

La motta del Livenza

Sacile nasce nel XII secolo come un porto sottoposto al principe della Pareia del Friuli, il Patriarca di Aquileia.
Lungo la Livenza, fino al XVI secolo, transitavano merci, ma anche i pellegrini in partenza o in arrivo dall’oriente che venivano ospitati nelle strutture dei cavalieri di San Giovanni presso l’ospedale di San Leonardo (oggi San Giovanni del Tempio). Nel Duecento Sacile fu spesso oggetto di attacchi da parte delle truppe del comune di Treviso e poi dai signori da Camino. Gli attacchi alla città potevano mettere in difficoltà la via del fiume con le barche che scendevano verso Venezia. Il territorio della città sulla riva destra del Livenza arrivava fino alla confluenza del Meschio, mentre la riva sinistra era sottoposta ai signori di Sant’Odorico, i Pelizza. Queste tecniche erano diffuse tanto che sappiamo che sul finire del ‘200 Corrado Pelizza, in conflitto con la città, aveva “munita di spineti e battifredi la sua torre , fece accolta di scherani , i quali istigati dalla di lui moglie Gisla manomisero violentemente i famigliari del Podestà Guglielmino della Torre”. Per controllare meglio il traffico commerciale e la difesa urbana la città costruì una “motta” dominata da una torre in legno. Il tipo edilizio della motta era una costruzione difensiva fatta in terra e legno. Prima veniva costruita una collina artificiale e poi alla sommità si realizzava la torre difesa ai piedi da un sistema di terra e palizzate di legno. Le strutture di difesa di questo tipo venivano ricostruite ogni volta ci fosse un problema militare e potevano essere abbandonate facilmente incendiandole. Erano opere provvisorie di contorno alla città murata.
Per fortuna quello che rimane di questo manufatto si è perfettamente conservato nella sua componente in terra, anche se le strutture lignee ce le possiamo solo immaginare. Il percorso sull’argine permette di arrivare ai resti di quello che rimane della struttura medievale conservata da allora sulla riva della Livenza. Se nel medioevo questa era “l’autostrada” dell’epoca oggi questi luoghi sono remoti e le sponde glabre della Livenza sono diventate dei boschetti di ripa con un carattere assolutamente naturalistico.

La freccia individua la posizione dei resti della torre medievale

L’attacco di una motta in un arazzo francese

Schema di una motta

Tipologie di motte con torre sommitale. Quella del Livenza è del terzo tipo, con locale interrato

La confluenza del Meschio con la Livenza

Sacile viene fondata come città portuale realizzando due isole tagliando un doppio meandro. Un’isola, Castelvecchio, diventerà città, in quella superiore saranno collocate le strutture portuali. Lungo la Livenza quindi tra il XII e il XVI si sviluppò un importante traffico fluviale controllato e protetto direttamente dal principe del Friuli. La Livenza da subito sarà una delle principali arterie commerciali del Friuli per merci e uomini diretti da e per il Nord Europa. Il terminale inferiore di questa via acquea era Venezia e il servizio di collegamento veniva garantito con piccole barche a fondo piatto (burchi) che per risalire la corrente dovevano essere tirati da uomini e buoi.
La Livenza in questa zona è molto profonda e ha un colore smeraldo intenso, ma arrivata alla confluenza del Meschio la situazione cambia completamente perché le lingue di ghiaia portate dal torrente cominciano a stendersi nell’alveo creando dei colori molto meno intensi con banchi di ghiaia fino a Brugnera.
Questo processo naturale nel tempo bloccò il traffico delle imbarcazioni diventate tra il medioevo e l’età moderna, più grandi e pesanti. Per secoli Sacile chiese a Venezia di intervenire liberando il letto del fiume dai banchi di ghiaia. Questo progetto fu predisposto da Tommaso Temanza uno dei migliori tecnici della repubblica solo nel 1771, ma non fu mai realizzato. Dal XVI secolo i due porti più a monte dell’asta del Livenza e affluenti saranno Portobuffolè e Pordenone con il traghetto che faceva posta a Rialto a Riva del Vin.
Successivamente la Livenza nel tratto alto sarà solcata solo dalle caratteristiche barche a fondo piatto comandate da una pertica di legno.

 

I burchi del Livenza non dovevano essere molto diversi da questa imbarcazione. La vela veniva usata per attraversare la laguna dove non era possibile essere assistiti dal tiro.

Tipica imbarcazione dei pescatori dell’Altolivenza

La confluenza del Meschio nella Livenza nei pressi del lungo dosso fluviale che a nord est conserva i resti della motta medievale.

L’insediamento degli slavi

Dalla motta medievale il fiume per la prima volta comincia ad avere, su alcuni tratti, la forma degli argini per il contenimento delle piene. Gli argini a monte servono per contenere l’acqua rispetto ai campi, ma a sud le modeste arginature servono per salvaguardare un antico insediamento che ricorda alcune fasi del popolamento medievale con popolazioni slave trasferite qui dal signore del Friuli e di Sacile: il Patriarca di Aquileia. L’abitato si chiama Schiavoi e si rifà appunto, agli schiavi o schiavoni e quindi a immigrati slavi letti dalle popolazioni romanze come diversi per usi e costumi. Del vecchi abitato nulla più rammenta questa storia antica. Schiavoi non ebbe mai una piazza e nemmeno una chiesa e la mancanza di regole compositive è forse uno dei caratteri che lega questa borgata agli insediamenti slavi più vicini. Come si può notare dalle cartografie storiche schiavoi aveva una certa importanza solo per il fatto che qui confluivano tutte le principali strade della destra idrografica per la comodità del guado. A Sud Est del villaggio si notano i Campi Saccon. Il toponimo ricorda il disegno meandrile della Livenza. Questa forma del fiume altre volte è definita “saccil” da cui il nome della città portuale.

1805 Si nota come a sud di Schiavoi ci sia un fitto sistema di strade che poi superavano le zone umide dalla Fossa andando verso Francenigo

Il borgo nel 1807

Il castello scomparso di Topaligo

Dell’ambito del castello scomparso di Topaligo rimane poco o nulla. Si ritiene sorgesse sulla riva del Meschio nella zona dove oggi c’è la chiesetta di San Daniele. Non è da escludere che si trattasse di un ampio castellare difeso da un ampio fossato e da una palizzata. Questa struttura potrebbe corrispondere al grande terreno pseudo ovale che è completamente circondato dalla strada pubblica. Tra l’altro questa era la principale strada che conduceva da Sacile a Conegliano via Fratta, prima della costruzione nel 1812 dell’attuale Pontebbana. Del resto, la piccola chiesetta dedicata a San Daniele è del XII secolo, quindi precedente alla distruzione del castello e doveva essere all’interno dello stesso o nei pressi del recinto. Il trasferimento dei signori di Topaligo all’interno delle mura urbane mise in crisi il paese e l’edificio religioso che oggi vediamo in una forma modesta nonostante l’antica dedicazione.
Per Nono (1923) “Dei Topaligo rimane oggi soltanto il nome ad un colmello posto appena fuori di Sacile, sulla sinistra sponda del Meschio. Il castello dovea sorgere dove sono ora le case Zancanaro (ex Boldarini) oppure nei campi attigui di proprietà dei conti Gamba. Affermano que’ contadini di aver trovato qua e là, lavorando la terra, pezzi di pavimento, laterizi, ecc. ; osservasi però che quella zona veniva attraversata dalla strada romana, di cui diremo più avanti.
Accanto alle case Zancanaro sorge un’antichissima cappella; fino a pochi anni fa ammiravasi nella parete sinistra una testa di madonna di buona fattura del secolo XV, ma le pareti vennero imbiancate e la bella pittura fu ricoperta; solo rimase un mediocre S. Sebastiano.
Notisi infine che la strada la quale dalle case Zancanaro mena al villaggio, chiamasi tuttora «via Castellana»”.

Foto storica della chiesetta di San Daniele di Topaligo.

Topaligo nel 1807

La strada postale originaria per Treviso e Venezia è segnata in rosso e passava per Topaligo, mentre i due rettifili nuovi corrispondono alla Pontebbana e alla successiva ferrovia.

L’insediamento di Vistorta

Come mostra la cartografia ottocentesca le borgate in questa zona erano sostanzialmente tre: Vistorta (Villa Storta), Villa Raspa e Fossabiuba. Tra le tre la prima era la più grande ed era sostanzialmente divisa in due diversi settori. Verso oriente c’era la casa/villa della famiglia proprietaria mentre verso ovest c’erano per lo più le dipendenze rustiche.
Di chi fosse la villa che ha una graziosa composizione di facciata non è facile saperlo. Forse era la residenza del “nodaro Zuan Domenego del Savio della Vistorta” che nel 1586 sottoscriveva importanti documenti per la Patria del Friuli e che in un altro documento viene chiamato “ser Ioannes Dominicus de Sapientibus de Vistorta sub Sacilo”. In seguito, la proprietà pervenne alla famiglia veneziana dei Tornielli e poi ai Brandolini che ne sono gli attuali proprietari.
Uno degli elementi caratteristici della Vistorta di antico regime è senza dubbio la piccola chiesetta dedicata alla Trasfigurazione. Si tratta di una piccola cappella sorta al limite del recinto della villa per dare un servizio anche ai pochi contadini dell’epoca. L’edificio religioso è datato 1634, quindi è successivo alla villa. Dello stesso anno sembra essere anche la torretta posta lungo il confine di via Campagnola. Sopra la facciata della chiesa c’è una decorazione interessante perché è un prodotto musivo definito dalle prime esperienze della Scuola Mosaicisti del Friuli.

Vistorta nel 1807

 

L’opera è del 1922, cioè l’anno in cui Lodovico Zanini, delegato per il Friuli dell’Umanitaria di Milano, fondava a Spilimbergo la scuola. L’opera fu realizzata nella scuola e poi collocata in opera e rappresenta Cristo entro un medaglione raggiato affiancato da due profeti realizzati in una scala minore.

Il castello scomparso di Fossa Biuba

A Fossabiuba tutti riconoscono ci fosse un castello che andò distrutto già nel XII secolo. Si trattava molto probabilmente di un castellare, cioè di un villaggio difeso da fossato e palizzata anche se tutti convergono nel dire che quest’opera era della famiglia Del Ben. La famiglia si inurbò nella città e forse per questo il sistema fortificato scomparve assorbito dall’influenza dei caminesi. Domenico Ciconj nel 1847 ricordava “Fossabiuba il di cui castello appartenne alla famiglia Del Ben distrutto venne dai Caminesi nel 1199”. E’ probabile che in quell’occasione le azioni fossero state diverse perché i Caminesi detenevano la giurisdizione di Cavolano da qualche decina di anni. E’ probabile che la famiglia habbia smontato le strutture militari considerandole più un fastidio che altro. Tutti però ricordavano quel luogo che oggi si mostra come una borgata agricola come un potente castello. Il Doglioni nel 1594 scriveva che Sacile “ha sotto di se ventiquattro villaggi de quali due Cavolano & Fossabiuba furono già castelli ma sono poi dalle guerre continue rovinati, anzi nell’ultimo vi si trova sepolto un Capitan generale di Othone Imperatore”. Questo spostava il castello di Fossabiuba nell’età del primo incastellamento, prima ancora della formazione dello stato friulano.
Italico Nono nel sue volume sui castelli del Livenza ricordava i castelli esterni a Sacile in modo diverso: “Dei 24 villaggi dei tempi più remoti, tre, Topaligo, Cavo-lano e Fossabiuba erano castelli, ma furono demoliti : Gavolano nel 1347 dal Patriarca Bertrando, Fossabiuba nel 1199 dai Ga- minesi; di Topaligo non si hanno notizie precise”.
Di Fossabiuba la sola cosa che rimane oggi a testimoniare lo storico villaggio è chiesetta della prima metà dell’XI secolo che si trovava probabilmente all’interno del castellare della famiglia del Bel e che era intitolata a Santa Maria della Natività, oggi di Santa Maria delle Grazie. Nella chiesetta c’è una collezione rilevante di dipinti per lo più cinquecenteschi di fattura popolare. Questo è stato possibile perché la devozione rispetto a questo luogo sacro aveva un bacino di religiosità più estesa di quella della piccola borgata che aveva sostituito il villaggio e il castello. All’esterno si è conservato solo un affresco che mostra una madonna con santo, ma è all’interno che le immagini dedicate alla Madonna si moltiplicano. Per esempio ci sono lacerti trecenteschi di una importante Adorazione dei Re Magi, e una popolaresca Ultima cena.
Di un certo interesse è anche l’altare seicentesco il legno dorato che sembra uscito dalla bottega dei Ghirlanduzzi che accoglie nella nicchia una popolaresca statua vestita della Madonna con il bimbo ai piedi riconducibile a un settecentesco artista locale.
Molto bello è il cinquecentesco affresco che mostra Sant’Agata e ben tre versioni cinquecentesche della Madonna con bambino in trono.
Riporto qui di seguito la fantasiosa descrizione che Italico Nono dava del castello giusto un secolo fa: “Fu Fossabiuba feudo di Belforte Del Bel, gentiluomo padovano, capitano al servizio di Ottone II Imperatore; gli successe il figlio Giacomo, detto il potentissimo, il quale godendo le grazie dell’Imperatore, ebbe la contea di Fossabiuba dove si ritirò e ne costrusse il castello (verso il 1014) e poco dopo anche la chiesa intitolata allora a S. Maria della Natività, concedendo ottanta campi in feudo ai Rettori sacerdoti.
Morto Giacomo, fu conte di Fossabiuba Egidio, il quale ebbe anche il titolo di signore della cortina di Bibano, come erede della madre Alba figlia di Cornelio conte del castello di Bibano-Nel 1111 Egidio fece testamento a favore dei dieci sacerdoti della Pieve qualora non avesse avuto eredi ; ma ebbe invece il figlio Gian Giacomo, il quale portò il castello alla massima grandezza e potenza; lo ereditò Bombello, che a sua volta aumentò ancora le difese della rocca, in modo da suscitare le gelosie dei signorotti vicini, massime dei Caminesi.
A Bombello successe Martino, il quale non seguì le orme de’ suoi predecessori; non ebbe cura del castello, anzi l’abbandonò, ritirandosi a vivere nel vicino Cavolano. Lasciò egli, dice la cronaca di casa Lucheschi, «che Fossabiuba, castello edificato con tanti nobili sudori e degne fatiche de’ suoi antenati, ornato di tanti privilegi imperiali e consacrato per si gran spazio di. tempo, con tanto decoro che erasi fatto temere dalli inimici, et capo di provincia, caduto per sua dapocagine nelle mani delli detti inimici che tendendo alla propria grandezza, spiegando l’antico odio, fecero prima spiantar le mura et interrar le fosse, lasciando poi che a poco a poco ruinasse il palazzo della residenza ed il colosso di Giangiacomo il primo, che era una statua equestre marmore indorato, dell’altezza di 24 piedi, con le armature intorno et il barbone di capitano generale delle arme, come lui era stato, onde rimanendo Fossabiuba terra aperta et perciò poco sicura, priva della Corte, comincio a disabitarvi, non concorrendovi più né mercanti né mercanzie, finché mori Martino, privo delle sue sostanze che convenivano alla magnificenza della sua casa che fu sottoposta ad altri, seguendo ad abitare Cavolano come aveva fatto il padre».
G. D. Ciconi nella sua monografia più volte citata capitolo «Sacile», narra che il castello di Fossabiuba fu distrutto dai Caminesi nel 1199; la chiesa, che aveva titolo di Pieve ed era officiata da più sacerdoti, rimase isolata, abbandonata in mezzo ai campi, misero vestigio di tanta grandezza”.

 

La chiesetta e il borgo delle case di Fossabiuba nel 1808

Villa Brandolini e il parco di Russel Page

È poco chiaro come nel XVIII secolo Giudo Brandolini di Cison di Val Mareno approdi a Vistorta con l’intento di costruirvi ed inizia a realizzare una moderna ed efficiente azienda agricola dedita alla coltivazione di vigneti. Con progressivi acquisti si pervenne alla costruzione di una azienda agraria che di fatto assorbiva l’intero paese. Si consolidò una sorta di azienda-villaggio.
Si dice che la villa fosse stata dei conti de Zorzi, è stata recentemente oggetto di rimaneggiamenti che ne hanno modificato l’impianto originario ma per certo c’è che nel 1808 non esisteva mentre invece il Meschio toccava la strada con un ampio meandro.
Villa e parco sono quindi il frutto di una progettazione unitaria ottocentesca e anche per questo è molto interessante, proprio perché non c’entra con le ville venete.
Riporto una descrizione ufficiale: “Al limite sud-ovest dell’abitato di Vistorta, sorge l’ottocentesco complesso composto da più edifici raccolti a nord del parco e separati dal tracciato stradale. Oltre alla villa con un corpo a “L” e le due barchesse, vi sono vari fabbricati annessi, tra cui anche un asilo infantile destinato all’educazione dei figli dei dipendenti. Entrando nella tenuta, appena varcato il cancello, un viale svolta immediatamente a sinistra e conduce alla residenza. La villa si eleva su due piani fuori terra più il sottotetto e presenta una composizione semplice ed essenziale degli elementi formali di facciata. Sulla parte anteriore l’ingresso architravato è affiancato da due finestre rettangolari ed è sormontato, al primo piano, da tre porte finestre, su balconcino con parapetto in ferro, ai lati delle quali si dispongono ordini regolari d’aperture. Il tetto è articolato nella parte centrale della villa da cinque lucernari che seguono lo stesso asse delle finestre sottostanti. Una barchessa porticata alla quale si accede tramite un imponente atrio segna il prospetto a ovest. Un’altra lunga barchessa è posizionata parallela al viale con un ampio porticato, ora, come un tempo, deposito di prodotti agricoli”
La villa risale alla prima metà del 1800; il catasto ottocentesco attesta che tale area è proprietà di “Brandolini Rota nobile Girolamo Francesco”, esponente della famiglia Brandolini che risulta iscritta nel registro dei patrizi veneti dal 1686 e che acquisì la villa e la tenuta che la comprende attorno al 1780.
La barchessa del nuovo recinto dei Bandolini va riferita al 1848 e credo vada attribuita agli architetti Antonio e Stefano De Marchi di Caneva per lo stile storicista che imitava le grandi barchesse cinquecentesche. Il grande portico a doppia altezza dona all’edificio una importante monumentalità.
Uno degli elementi di grande carattere dell’ambiente è lo speciale parco informale di circa sette ettari. Anche qui mi rifaccio alla scheda dell’ERPAC che lo descrive:
Nel 1963 l’architetto paesaggista inglese Russel Page intervenne nel giardino creando “un grande parco romantico e naturalistico nella tradizione del giardino russo dell’Ottocento” che fu molto amato dal conte Brandolini D’Adda. Il parco, che si estende per sette ettari, comprende al suo interno tre specchi d’acqua originati da un ruscello, conifere e latifoglie (alcuni ottocenteschi, altri introdotti da Page).
Con decreto di vincolo del 4 settembre 1985 viene riconosciuto l’interesse particolarmente importante del complesso “villa con adiacenze e parco”: le motivazioni sono “l’attuale proprietà (appartenuta alla nobile famiglia Brandolini – Rota poi d’Adda – fin dallo scorcio del XVIII secolo) costituita dalla grande villa, ristrutturata nel novecento e il cui impianto è riferibile ai primi del XIX secolo; dalla adiacente spaziosa barchessa che ancora conserva il primitivo suo aspetto e dall’ampio parco all’inglese ricco di rare essenze arboree e specchi d’acqua di risorgiva è un importante e ben conservato esempio di tenuta padronale ottocentesca e insieme una significativa testimonianza dell’equilibrato inserimento entro il vasto teatro naturale del parco delle severe forme della villa derivate dai modelli della tradizione veneta”