Stazioni narrazione 3 Itinerario

Le direttrici di età altomedievale nei territori dell'alta pianura

Comune di Fontanafredda

La “Stradella” come confine paesaggistico

Se è vero che lungo la linea delle risorgive nacquero gli insediamenti medievali alcuni storici credono che la strada più antica fosse però più alta, in una regione asciutta e facilmente transitabile. Questa direttrice va identificata nella cosiddetta Stradella che collegava Polcenigo con Roveredo e che ancora oggi può essere percorsa con qualsiasi tempo perché si snoda su terreni ben drenati. Le terre più preziose per la comunità, quelle che fornivano la maggior parte dei prodotti cerealicoli erano poste proprio tra la strada bassa e la stradella. Al di sopra, come mostra bene la mappa ottocentesca c’era la regione caratterizzata dalle ‘tese’ cioè da piccoli insediamenti temporanei e privati che funzionavano come gli stavoli in area alpina. Questi campi coltivati avevano eroso le originarie terre pubbliche e permettevano alle famiglie più ricche di raccogliere fieno presso le tese e di ospitare animali al chiuso pur rimanendo vicino alle terre del pascolo. La stradella di fatto si configura ancora oggi come un confine paesaggistico tra quelle che erano le terre private e le grandi praterie aride. Le strade bianche che la intersecano sono ancora quelle antiche che attraversavano le praterie comunali alla volta di Aviano, Roveredo o Maniago, mentre è evidente il contrasto tra l’orientamento degli ordinati campi medievali, stretti e lunghi, e quelli più grandi e non orientati che ricordano le espansioni delle proprietà private ai danni delle terre collettive.

Le Forcate e l’insediamento giuliano

Le Forcate derivava il suo nome dalle forche che lungo le strade che attraversavano la campagna mettevano in guardia il malfattori sulla gestione di una giustizia abbastanza sommaria da parte dei giurisdicenti. Per molti secoli le attività di pascolo su questa zona sollevarono molti conflitti e processi, ma la forma che si mostra oggi agli occhi di un visitatore è molto diversa da quella dei pascoli frequentati da greggi di pecore e di oche. A partire dall’800 molti terreni furono venduti a privati le praterie pubbliche furono vincolate per le manovre militari documentate anche nel bel quadro di Luigi Nono. A partire dal 1888 le praterie furono parcellizzate e date in enfiteusi ai singoli abitanti e alcuni lotti furono stabilmente privatizzati. Solo nel Novecento queste terre furono messe a coltura nel momento in cui iniziava il processo di irrigazione dell’alta pianura. Negli anni ‘30 del secolo scorso l’Ente Rinascita Agraria iniziò ad acquistare tutti questi piccoli fazzoletti per produrre un progetto di bonifica che prevedeva la costruzione di aziende agricole sparse e irrigate artificialmente. La bonifica fascista si interruppe dopo aver edificato circa metà delle aziende agricole. Negli anni ‘50 i lavori ripresero per accogliere anche le famiglie dei profughi giuliani e il progetto originario venne lentamente completato riproducendo sempre la storica residenza agricola.
1938 Una delle prime case costruite alle Forcate
1885 Manovre militari nelle praterie dell’alta pianura pordenonese in un quadro “La Fanfara dei Granatieri” di Luigi Nono.

La chiesa e la piazza di Roveredo

La chiesa di Roveredo, dedicata a San Bartolomeo, è uno degli esempi più interessanti dell’architettura del neoclassico del Friuli Occidentale. L’edificio in età medievale era posto all’interno di una cortina difensiva che doveva proteggere gli abitanti. Gli apprestamenti dovevano essere ormai scomparsi in età veneziana e quando arrivarono i turchi nel 1499 la popolazione fu quasi completamente sterminata e il villaggio distrutto. Le pratiche di ripopolamento promosse dai signori di Porcia fecero rinascere il villaggio agricolo e la chiesa di impianto cinquecentesco. La mappa ottocentesca del catasto austriaco mostra chiaramente le condizioni in cui si era trovata l’area centrale del paese dopo la ricostruzione. L’asse edificato principale era quello che conduceva verso le grandi praterie pubbliche, mentre l’area della cortina difensiva è ancora ben evidente dalla forma pseudoricolare che circonda la chiesa. In corrispondenza dell’incrocio gli edifici sembrano quasi piegarsi per lasciare spazio a un grandissimo sfueis, una lama d’acqua, che serviva per abbeverare gli animali. A fianco della chiesa scorreva la roggia medievale che proveniva da San Quirino e che era la sola risorsa idrica per tutto il comune. Le mura della cortina erano completamente scomparse e un grande prato divideva la piazza dal sagrato. La nuova chiesa fu progettata nel 1848 da Antonio e Stefano De Marchi di Caneva, ma i lavori inizieranno solo nel 1854 e si concluderanno del 1872 con la consacrazione. E’ dello stesso periodo la decorazione interna con un affresco del trevisano Giuseppe De Lorenzi e l’altare riformato con un paliotto con decorazioni geometriche e mensa che regge un ostensorio affiancato da due angioletti e incorniciato da volute; ai lati le statue dei santi Bartolomeo e GiovanniBattista. Nell’aula si trovano anche due acquasantiere del ‘600, una attribuita ad Alessandro Pavanello (1636) e due altari settecenteschi, uno con una tela dell’Annunciazione di fattura ottocentesca, l’altro con la statua della Madonna del Rosario.

Il Molino Pajer

Non è da escludere che in origine la struttura, come le case del villaggio, fosse in legno, ma già le descrizioni dei danni portati in paese dai turchi nel 1499 testimoniano un ambiente costruito in muratura. Il molino che vediamo oggi è composto da corpi di fabbrica di diverse età. Le strutture più antiche sembrano essere del XVII secolo e da allora c’è testimonianza documentaria dell’esistenza del molino gestito fino al 1967 dalla famiglia Pajer.

Oggi l’edificio versa in una pesante crisi della sua architettura.

Come a San Quirino, anche qui il mulino sulla roggia era in sostanza adiacente alla cortina fortificata. Probabilmente la localizzazione era coeva al disegno stesso del villaggio pianificato nel XII secolo colonizzando le praterie aride e coperte da una selva, come lascerebbe intendere il toponimo. Il luogo della difesa popolare, l’abbeveratoio, la roggia con l’acqua potabile e il molino facevano parte di quei servizi di base che rendevano possibile la colonizzazione di aree aride e precedentemente prive di villaggi. Il molino nacque con il paese e la chiesa nel punto in cui era possibile costruire un piccolo dislivello che permettesse di alimentare una vasca di carico e sfruttare un piccolo salto per le ruote.

La mappa del Catasto Austriaco mostra come a monte del mulino si fosse crata una vasca di carico mentre la stradina in occasione dell’opificio scartava leggermente lasciando uno spazio di pertinenza per i carri

La Brentella

Nel 1487 La repubblica veneziana fece costruire fece costruire una roggia che collegava il Cellina con il Noncello per trasportare la legna. La Cava di San Marco finiva per essere una delle più importanti opere idrauliche di quell’epoca. Un canale artificiale che avrebbe attraversato i territori aridi per trasportare la legna della Valcellina evitando i territori e il porto di Pordenone che in quel periodo erano assoggettati all’Austria. Non a caso il canale fu fatto transitare per le terre comunali di Roveredo e poi diretto alla volta di Rorai Piccolo, quindi sempre all’interno della giurisdizione friulana retta dai di Porcia. I terreni posti a ovest della Brentella furono coltivati in modo intensivo, mentre ad Est, in territorio di San Quirino si mantennero, fino al Novecento, paesaggi delle praterie.
Questa infrastruttura acquea che prese il nome di Brentella, aveva anche il compito di fornire acqua per l’irrigazione dei terreni coltivati e divenne un importante segno nel paesaggio dell’alta pianura. Qui transitarono per secoli le fascine di legname tagliate in Val Cellina e dirette a Venezia. Il percorso era ripidissimo e bastava poca acqua per far correre la merce. Per impedire che l’acqua penetrasse nel suolo il condotto era completamente costruito con sassi annegati nella calce.

Quello che può sembrare un piccolo canale di bonifica simile a molti altri costruiti dopo il 1930 è in realtà uno dei manufatti idraulici più antichi della destra del Tagliamento.

La mappa del Catasto Austriaco mostra come a monte del mulino si fosse crata una vasca di carico mentre la stradina in occasione dell’opificio scartava leggermente lasciando uno spazio di pertinenza per i carri

Gli insediamenti dei profughi giuliani alle Villotte

La Villotta era il sito di un villaggio insediato nel basso medioevo ma scomparso quasi subito. La maggior parte delle strade attraversava le villotte per raggiungere i ponti costruiti alla metà del ‘400 con la costruzione della Brentella, ma non è da escludere che le direttrici stradali fossero ben più vecchie dell’infrastruttura idraulica. Nel secondo dopoguerra si pervenne a irrigare e parcellizzare queste terre per ospitare alcune famiglie di profughi giuliani costruendo un insediamento del tutto originale. Nel 1955 lo Stato approvava la legge n.240 che prevedeva di acquisire ampie proprietà agricole per una colonizzazione agraria di emergenza: “acquisto od espropriazione di terreni per l’occupazione di profughi giuliani”. L’ente Tre Venezie nel 1957 finiva questo ampio progetto di lottizzazione agraria che prevedeva di reinsediare famiglie di contadini destinando a loro poderi a riscatto. L’Ente Tre Venezie nella pianura friulana acquistò 2.700 ettari di terreni agricoli che trasformò in 325 poderi, Roveredo, Villotte di S. Quirino, Dandolo di Maniago oppure nella Bonifica della Vittoria al Fossalon (Gorizia) e Pineda (Venezia). Complessivamente alle Villotte furono costruite 42 aziende agricole a conduzione famigliare. Le popolazioni che arrivavano dall’Istria dovettero imparare un modo diverso di coltivare la terra e dovettero indebitarsi anche per ricostruire l’insieme degli animali che un tempo costituiva l’azienda agricola contadine. Ogni podere misurava dagli 8 ai 10 ettari e poteva essere riscattato pagando una rata annuale per trent’anni. I fabbricati erano moderni, serviti con l’acqua potabile e l’energia elettrica. Un ettaro era piantato a vigna mentre il resto era tenuto a seminativo. Avendo perso tutto durante la prima fase della profuganza ogni podere era stato dotato di bestiame, macchine agricole e attrezzi per iniziare a coltivare una terra molto diversa da quella di origine.
Fienagione alle Villotte negli anni ‘50
1962 contratto di acquisto del podere n.30

Il paesaggio perduto delle “tese”

Nel periodo bassomedievale le regioni agrarie erano solo due, quella dei terreni privati e coltivati interni al villaggio e quella delle praterie pubbliche esterne ai recinti produttivi. Il paese era legato alle periferie pastorali da strade campestri cintate perché quotidianamente gli animali uscivano al pascolo e poi rientravano in paese. A partire dal ‘500 i comuni cominciarono a vendere alcuni brani di terra pubblica per appianare le urgenze economiche dell’amministrazione. Queste terre sono riconoscibili perché esterne ai sestrieri di San Quirino di tradizione medievale e perimetrati da una linea rossa e dai prati pubblici in verde intenso. Questi spazi di recente espansione agraria erano caratterizzati dalle “tese” che erano degli edifici privati ma di uso temporaneo. Piccoli fienili caratterizzarono i nuovi paesaggi. Qui i privati stoccavano fieno che sarebbe poi stato portato alle stalle in paese. Questi edifici, che nel nome ricordano il tema di portici agricoli, erano probabilmente costruiti in legno. Oggi le tese non ci sono più e al loro posto troviamo delle case che hanno un carattere quasi urbano, oppure terre arative che hanno preso il posto dei prati dopo l’arrivo dell’irrigazione. Rimane invece la strada che metteva in collegamento le stalle del paese con i pascoli. Lungo queste strade, dette anche argentarie, gli animali uscivano alla mattina e rientravano alla sera.

La Mason dei Templari

Alla fine del dodicesimo secolo il territorio di San Quirino, che era originariamente sottoposto al re stiriano, fu donato ai cavalieri templari. I motivi della donazione sono facilmente intuibili. San Quirino si trovava in territorio austriaco lungo una strada detta Regia che conduceva a un importante porto commerciale, Pordenone. L’insediamento permetteva ai cavalieri templari di realizzare una stazione di sosta posta a poche ore di marcia dal porto di Pordenone. Monaci e pellegrini avrebbero potuto trovare ospitalità in un villaggio prima di procedere alla volta di Venezia. La cessione di tutto il villaggio e delle sue terre avrebbe garantito ai cavalieri un reddito da impiegare per mantenere la stazione di posta, la “Mason” alla francese, e il finanziamento di azioni lontane. La Mason non fu realizzata all’interno del villaggio, ma sul bordo dello stesso, seppure nei pressi della roggia che andava a Roveredo. La scelta di tenere distante l’ospedale per i pellegrini era anche suggerita dal pericolo delle epidemie e per questo motivo l’ospizio templare e il villaggio finirono per dialogare a distanza. Oggi l’ambiente della Mason è molto cambiato da quello descritto nelle immagini settecentesche ma il corpo principale dell’ospedale è ancora presente e recentemente drammatizzato dall’esposizione sul muro esterno delle croci templari. Allo scadere dell’ordine a seguito delle repressioni che attraversarono tutta l’Europa i diritti sulle terre di San Quirino passarono ai cavalieri di San Giovanni che continuarono a gestire l’ospitalità e a incamerare le risorse agricole che spettavano alla Mason e in antico ai signori della Stiria. l sistema economico che faceva capo alla gestione dei campi del villaggio di fatto si conservò fino al XIX secolo. Oggi la piccola chiesa di servizio non esiste più e il paese si è espanso sulle terre coltivate fino ad arrivare a saldare le due entità sacrificando le terre coltivate più antiche.

La chiesa di San Rocco e il villaggio

Il principio di organizzazione dell’insediamento di San Quirino è leggermente diverso da quello di Romano. Qui le case agricole si disponevano direttamente sulla strada dando vita a una sorta di stretto corridoio sul quale si affacciavano i retri di case e stalle coperte per lo più in paglia prima dell’800. Non era il sole a determinare l’aspetto della strada, ma la reticenza a conservare una certa domesticità proteggendo il cortile dallo spazio pubblico. Lungo via San Rocco nel XV secolo, alla fine del rettifilo stradale fu costruito un piccolo altarino dedicato ai due protettori contro la peste Rocco e Sebastiano. Questo piccolo oratorio ha assunto il senso di un fondale contrapposto alla villa dei Cattaneo e una sorta di chiusura simbolica di una strada particolarmente larga per gli usi del tempo. In realtà questo spazio pubblico era una sorta di piazza e un luogo in cui in antico si raccoglievano gli armenti che tornavano dal pascolo. La chiesetta fu ampliata nel XVIII secolo epoca alla quale va attribuito il portale dell’Antonelli di Dardago (1713) e forse la Trinità e Santi di un anonimo friulano. Nel secolo seguente l’oratorio fu ampliato a cura di Giovanni Gardonio di Cordenons e a quel periodo (1886-1887) vanno ricondotte le pesanti decorazioni a stucco che caratterizzano l’interno, mentre meno pesante è la Madonna della Salute del veneziano Francesco d’Orazi eseguita tra il 1855 e il 1856. Di pregevole fattura la statua in legno di fattura seicentesca che rappresenta il santo protettore.

La chiesa di San Quirino

La chiesa di San Quirino racchiude nella titolazione al santo croato-ungherese anche il toponimo dell’insediamento antico. Questo era abbastanza frequente nell’età della colonizzazione bassomedievale e quando sorse il villaggio, nel XII secolo il protettore poteva fare la differenza. Per questo motivo nella zona i santi che hanno influenzato il nome del paese sono molti: San Martino di Campagna con il gemello del Tagliamento, San Leonardo, San Vito, San Foca, ecc. La nascita del villaggio fu garantita dal fatto di poter rifornire di acqua le campagne e gli agricoltori e non è un caso se la chiesa sorse proprio nel punto in cui la roggia si divedeva in due per rifornire anche Roveredo e Cordenons. La prima chiesa dedicata a Quirino , vescovo martire di Savaria, era difesa da una cortina muraria in muratura. All’interno del recinto c’era la chiesa e qualche piccolo magazzino da usare durante qualche possibile attacco. All’interno c’era anche il cimitero del paese. L’edificio fu ricostruito e probabilmente ampliato nel XVI secolo e nel 1584 misurava circa 19 metri di lunghezza per sette di larghezza. L’esigenza di ristrutturare la chiesa si fece sentire mano a mano che caddero le mura promuovendo la costruzione del palazzo dei Cattaneo che si inserì adattandosi nell’impianto tra il sagrato e la roggia. Costruita nel XVI sec. e ingrandita in forma basilicale tra il 1865 e il 1869, la chiesa ha facciata a salienti con corpo centrale tripartito da quattro lesene, affiancata dal campanile databile al XVIII sec. L’interno ha tre navate con copertura a volte a vela nell’aula centrale e a crociera su quelle laterali. All’interno gli altari e le opere d’arte sono per lo più tardo settecenteschi e l’altar maggiore e quello del Rosario sono di Gio. Battista Bettini. Le due pale d’altare, quella raffigurante la Trinità e San Quirino e quella della Madonna del Rosario sono attribuite a Pietro Antonio Novelli.

Villa Cattaneo

La famiglia Cattaneo, di origine bergamasca, era una delle più insigni di Pordenone e svolgevano attività di mercatura legata ai tessuti. Tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 la famiglia cominciò a diversificare i suoi investimenti comperando terre anche in ambito sanquirinese. Qui acquistarono una casa che era posta all’interno della cortina della chiesa vicina ad altre proprietà di
forestieri, i Melos, i Battistini, gli Ottoboni. Si trattava di una sorta di ufficio che permetteva di gestire le proprietà acquistate, ma con l’andare del tempo nella famiglia maturò il proposito di costruire su questo sito una sorta di villa. L’area era estremamente contenuta e difficile perché la casa si appoggiava al muro difensivo medievale. Per riuscire a progettare una residenza in forma di palazzo urbano i Cattaneo dovettero acquistare le case limitrofe. Gli acquisti furono fatti a partire dal 1703 e un disegno del 1718 ci mostra il palazzo già costruito in forma di villa. La residenza dei Cattaneo era stata già edificata ed era completamente circondata dallo spazio pubblico Sostanzialmente addossata alla chiesa la nuova residenza aveva due facciate. La principale guardava a sud, verso San Rocco, ed era diaframmata dalla strada da un piccolo giardinetto formale. Sull’asse est ovest Il salone Passante si affacciava sul brolo e sulle dipendenze agricole che stavano al di la della roggia e della strada disegnando sopra al portone un ampio balcone. Sull’altro lato la residenza dei Cattaneo si affaccia sulla piazza della chiesa costruita proprio all’inizio del ‘700 demolendo gli edifici e le mura della cortina.

Foto storica della villa che si inserisce nello spazio pubblico del paese

Il brolo di Villa Cattaneo e il sentiero per il biotopo

Oltre la strada i Cattaneo avevano acquisito tutte le terre possibili che un tempo servivano per la coltivazione e che nell’idea della nuova residenza assumevano il senso di una sorta di giardino staccato. Ne usci un lotto lungo e isolato dal resto del paese attraverso un alto muro di cinta. Uno spazio verde per il divertimento, quasi un hortus conclusus separato dai territori agricoli ordinari. Come oggi si accedeva all’area del brolo attraverso un ampio cancello che disimpegnava anche le due barchesse di servizio della villa. In realtà originariamente si costruì solo la prima delle barchesse, quella che oggi ospita gli uffici comunali. Il disegno della fine del ‘700 ci mostra schematicamente la barchesa all’interno del grande brolo solcato da un viale per il passeggio. Il disegno non indugia sulla forma del verde, ma il fatto che a nord e a su ci siano anche due fasce di terreno arativo ci fa pensare avesse anche degli spazi coltivati e che quindi, come dice la voce popolare, fosse un “brolo” produttivo. Fino alla fine del secolo scorso questa era anche la zona dell’orto di famiglia e il carattere del parco era molto centrato sulla produzione per il piacere dei signori.
Oggi da questo importante recinto parte un percorso che permette di raggiungere il confine comunale e un prato stabile tradizionale oggi riconosciuto come biotopo di un magredo maturo.

Il Battiferro e il molino

Lungo la roggia c’erano due importanti opifici funzionali al villaggio medievale: il molino e il battiferro. Queste strutture possiamo pensare che fossero state pensate all’interno del progetto dell’insediamento originario del villaggio perché gli edifici erano stati prima del Re di Stiria, poi dei templari e poi il “molino della Commenda di San Gio: dal Tempio di Sacil”.
La roggia che partiva a monte di San Foca arrivava correndo su territori fortemente inclinati e fin dal periodo antico qui si presipose una vasca di carico che garantiva una pressione tale da muovere le pale.
Mulino e annesso battiferro avevano un significato determinante per le comunità locali e spesso fabbri e mugnai erano i soli che in paese non fossero contadini.
A valle della villa successivamente sorse anche una bottega di fabbro ancora perfettamente conservata. L’immobile nel novecento fu riutilizzato come falegnameria. Una volta dismesso fu acquistato dalla Provincia di Pordenone prevedendo un restauro conservativo dell’immobile che ora diventerà del comune di San Quirino.
Il vecchio sito del mulino invece è stato ristrutturato come un opificio e oggi è difficile riconoscerlo come un elemento così importante.

La roggia di San Quirino diventa strada

La roggia di San Quirino dal XII secolo fino alla metà del Novecento è stata la principale risorsa idrica del territorio asciutto dell’alta pianura friulana. La sua origine era al Partidor e aveva il compito di servire all’abitato di San Foca e a quello di San Quirino. Dopo aver alimentato molino e opifici la roggia si divideva per prendere la direzione di Roveredo e Cordenons. Per riuscire a far correre l’acqua sopra le ghiaie era normale costruire un canale rivestito di sassi e come mostra l’immagine seguente si trattava di uno scavo leggermente arginato. L’acqua scendeva secondo la pendenza allontanandosi naturalmente dal fiume che era pensile e il disegno un poco incerto della linea che conduceva l’acqua ai due molini probabilmente era dovuto alla necessità di interpretare le micromorfologie del suolo cercando di assecondarlo. A monte l’acqua doveva essere tunuta alta per aumentare la forza sul salto, a valle l’acqua transitava per il paese in un modo domestico ed era utilizzata sia per abbeverare gli animali che rientravano la sera dal pascolo, sia per lavare la biancheria. Nel Novecento la roggia di San Quirino fu spostata e al posto della vecchia linea d’acqua oggi troviamo una strada pubblica via Molino di Sotto o Montereale che attraversa quelle che nel medioevo erano le terre pubbliche che dividevano San Foca da San Quirino e che ora sono completamente coltivate.

La chiesa di San Foca Vescovo e il villaggio

L’abitato di San Foca sorse sul principale guado del Cellina nel punto dove le terre erano meno buone per la coltivazione .Il territorio agricolo di antico impianto era in qualche modo difeso da tre chiesette campestri: San Biagio, San Antonio e San Urbano, la sola sopravvissuta. Al di là c’erano le terre pubbliche che dividevano San Foca da Sedrano. Se si osserva la carta si può notare come un tempo il paese sembrasse appoggiato a un ‘fiume verde’, l’ampia prateria dei magredi al bordo della quale transitava la roggia.

Le prime notizie di San Foca sono relative al documento dell’abbazia di Sesto al Reghena che nel 762 attribuiva l’insediamento a quei religiosi che evidentemente volevano controllare una delle strade più importanti del Friuli. In seguito Sesto cedette queste terre in riva al Cellina e tutti i loro diritti a un importante abbazia della Carinzia dell’ovest, quella di Millstatt. Il monastero benedettino fondato sull’omonimo lago esigeva diritti da tutti gli abitanti del paese, ma in questo modo con ogni probabilità forniva anche servizi a chi viaggiando tra il nord e l’oriente si trovava a guadare il Cellina in un periodo in cui l’acqua segnava un confine tra Austria e Patria del FriuliL’abbazia Carinziana teneva il piccolo borgo agricolo già all’inizio del XII secolo perché San Foca è citata come un bene dei religiosi in un documento del 1177 che ne conferma uno precedente del 1122. Per alcuni il passaggio da Sesto a Millstatt è databile 1102.
La chiesa di San Foca ha una dedicazione antica, come il villaggio, e molto particolare perché non è chiaro il motivo per cui fu scelto di dedicare chiesa e insediamento al vescovo di Sinope del Ponto. L’attuale edificio non ricorda nulla di medievale, se non nella torre campanaria che alcuni studiosi hanno letto come il reimpiego di una torre della cortina medievale del paese, per altro non documentata. La chiesa attuale è stata costruita tra il 1885-1897 in forme neoclassiche. L’edificio è ad aula unica rettangolare con copertura a cassettoni lignei dipinti e rosette dorate. Al suo interno merita l’altare maggiore precedente alla riforma del tempio, ma anche l’alatre della Madonna del Rosario in marmo policromo, con paliotto scandito da lesene laterali e decorato al centro da una cornice scolpita racchiudente un cuore trafitto realizzato tra il 1864 e il 1897, quando fu integrato della cimasa.
All’interno si nota anche l’organo neoclassico del 1862 di Andrea Ferdinando Malahovsky.

Palazzo Valvason Maniago

 Nel periodo di gestione abbaziale del paese sia Sesto che Millstatt dovevano aver attrezzato in paese delle strutture di accoglienza per i pellegrini in transito, ma anche edifici per ospitare il gastaldo che gestiva gli interessi dei monaci. Ma l’abbazia carinziana era lontana e la gestione del feudo doveva essere in crisi dopo l’arrivo dei cavalieri templari a San Quirino.

Non a caso i di Porcia cominciarono a proporsi ai principi carinziani e ai loro alleati conti di Gorizia, avvocati dell’abbate, per gestire la piccola giurisdizione: “a comparer avanti l’illustrissimo signor conte di Goritia et Tiralo a domandargli la investitura del feudo, et retto feudo dell’avvocatia della villa di Santo Avvoca con le ragion a esso feudo” (1276).
Non ci sono notizie precise che ci permettano di individuare dove fosse collocati rispetto al resto del paese ospedale e depositi, ma si possono fare alcune deduzioni. E’ facile che la casa dell’abbazia fosse vicina alla chiesa e che abbia in qualche modo seguito la devoluzione delle cessioni dei diritti di Millstatt nel XV secolo. Infatti in data 1446 il monastero trasferì definitivamente i propri diritti a Biachino di Porcia. Quindi i di Porcia acquisirono anche la residenza dell’abbazia e crediamo che questa possa essere identificata con il palazzetto dei Valvason Maniago che si affaccia sul parcheggio di piazza Garibaldi. L’edificio oggi conosciuto come casa Allegretto sembra quasi un edificio popolare, ma quello che rimane del portone di accesso seicentesco in pietra a bugnato e le decorazioni pittoriche seicentesche delle sale del primo piano lasciano intravvedere una residenza nobile e gli esiti di una ristrutturazione di apparati murari più antichi. Per certo i di Porcia e i Valvason Maniago convissero per un certo periodo condividendo i diritti giurisdizionali da quando nel 1626 Venezia aveva concesso ai secondi il titolo nobiliare che garantiva il quarantatreesimo posto in parlamento.
E’ probabile quindi che questo sito fosse il cuore antico del paese e la sede dell’abbazia sestense prima e carinziana poi.

La chiesa di San Rocco e San Sebastiano

 
 La chiesa dei Santi Rocco e Sebastiano molto probabilmente sorse a seguito di una delle tante epidemie di peste che si abbatterono sulla campagna friulana nel XVI secolo. I due santi venivano popolarmente riconosciuti come intercessori con la spiritualità e difensori rispetto al terribile morbo. L’edificio originario è cinquecentesco ed è ad aula unica con struttura in pietra a vista e campanile a pianta quadrata addossato alla parete destra in prossimità della sacrestia. L’architettura ha rilievo solo da un punto di vista ambientale per come è collocata su un incrocio, mentre all’interno il bell’altare in pietra di Giovanni Antonio da Meduno datato 1546 ci permette di collocare temporalmente l’impresa popolare. L’altare è la sola opera certa di questo lapicida rinascimentale che realizzò per la chiesetta un altare tripartito con un disegno architettonico aggiornato, mentre le sculture sono di qualità modesta. Al centro della composizione sopra, il Padre e sotto la Madonna con il bambino. Nella lunetta di sinistra San Sebastiano e in quella di destra San Rocco.

Originariamente l’edificio era poco più di un altarino, ma il suo interno doveva essere affrescato dai pochi lacerti conservati.
Se si guarda con attenzione la tessitura muraria della facciata ci si rende conto che l’edificio originario era molto più basso e probabilmente meno profondo. La ristrutturazione e ampliamento molto probabilmente è della fine del ‘600, mentre il campanile fu aggiunto nel 1707 e sostituì la solita campanella posta in facciata.

La roggia e i mulini 

Lungo quella che oggi è via Partidor a ricordare la storica presa d’acqua, scendeva la roggia che sfiorava l’abitato alimentandolo. Il corso d’acqua transitava proprio in questo punto fin dal medioevo. Lungo il corso d’acqua la mappa ottocentesca ci mostra come si addensassero diversi opifici: un maglio e due molini. In sostanza questa era la zona artigianale di San Foca ed era anche la prima cosa che i viaggiatori provenienti da Vivaro avrebbero visto superando il guado.
La dimensione dello storico corso d’acqua è ancora perfettamente visibile lungo la stradina che da sempre gli correva a fianco e permetteva di intervenire con le manutenzioni. In alcuni tratti la struttura si alza per far prendere quota all’acqua e sfruttare il salto, come si vede ancora in corrispondenza del capannone che ha inglobato lo storico maglio, posto nel tratto nord. Il molino di sopra è crollato e quello di sotto è stato radicalmente ricostruito.

Il guado dell’abbazia e la strada Ungaresca


L’ampio alveo del Cellina, come si può vedere dalla mappa si allargava in modo rilevante tra Vivaro e San Foca. Da questo paese partivano due strade che lo attraversavano, l’ungaresca e la strada per Fanna per poi accedere alla Val Meduna e alla Carnia, come era stato negli interessi dell’abbazia di Sesto.

L’ungaresca invece permetteva di raggiungere Spilimbergo, San Daniele e la via del Canal del Ferro.
L’abbazia di Millstatt deteneva diritti molto ampi sul territorio della destra del fiume, mentre quella di S. Paul in Lavantal aveva alcune proprietà a Vivaro. Il carattere aperto dell’enorme guado quasi sempre asciutto era stato colto già nel X secolo dalle cavallerie ungare che attaccarono l’Italia e il terrore inchiodò il nome di questo popolo alla strada che attraversava il guado. Solo pochi decenni fa il transito in alveo fu sostituito da un comodo ponte, ma in questi territori tutti guardavano il cielo non solo per capire gli effetti del clima sul raccolto, ma anche solo per sapere se sarebbero riusciti a passare o a pascolare in riva al fiume. Sulle due sponde rialzate del guado correvano le due rogge per portare l’acqua ai paesi. Per arrivare a Vivaro si potevano percorrere due strade, quella che puntava direttamente sul campanile della chiesa di Vivaro e quella che conduceva per la chiesetta di San Francesco.

I Magredi


Salendo sulla riva sinistra del fiume si entra in un ambiente speciale e tutelato dall’Europa: il SIC (Sito di Interesse Comunitario) dei magredi.
I Magredi erano i pascoli più poveri in dotazione alle comunità rurali della zona e storicamente erano i luoghi in cui d’inverno si tenevano “a posta” le greggi di pecore.
Magredo vuol appunto dire terre magre, dotate di poco suolo fertile.
In questo ambiente qualsiasi vegetale ha una crescita molto lenta influenzata dalla profonda aridità del suolo che riesce a malapena a ricoprire a pezzi i sassi del materasso alluvionale. Eppure nel passaggio tra l’ambiente bianco e minerale delle ghiaie mosse dalle piene del Cellina e i primi suoli terrosi degli ambienti più prossimi alle zone coltivate c’è una straordinaria variazione ecotonale negli ambienti naturali. In queste brughiere c’è molta più complessità e rarità che in qualsiasi altra parte della destra Tagliamento.
In questo tessuto di piante locali si possono trovare esemplari del tutto speciali come la Crambe tartaria tipica delle pianure ungheresi. Senza scomodare le cavallerie ungare che transitarono per poche ore in questi luoghi circa un millennio fa vale la pena ricordare che sulle praterie dei magredi la Repubblica di Venezia teneva in quarantena le mandrie di bovini che importava dall’Ungheria per il mercato lagunare.

La chiesetta di San Francesco

Come mostra in modo efficace la carta storica la chiesetta di San Francesco segnava la fine delle terre coltivate e l’inizio delle praterie pubbliche. Allo stesso tempo la chiesetta era una sorta di landmark perché verso il piccolo altarino convergevano la maggior parte delle strade. Qui convergevano molte strade e attraverso questo nodo si avvicinavano al paese tutte le greggi che giornalmente uscivano dal paese alla mattina per poi rientrare alla sera. Sulla chiesetta non ci sono molte informazioni e la dedica al santo di Assisi in aperta campagna non è molto frequente. Diventa invece interessante notare attraverso questo piccolo oggetto come si è trasformato il paesaggio attorno e come gran parte delle praterie aperte sia stato colonizzato con disegni di agricoltura moderna. Oggi la chiesetta non è più su un confine paesaggistico, ma è invece una isola all’interno di un territorio riordinato verso una agricoltura moderna.

Il mulino di Vivaro

Anche nell’insediamento medievale di Vivaro la questione del rifornimento idrico per il paese era stato risolto con la costruzione di un canale artificiale che prendeva acqua dal Cellina e la trasportava verso il centro del paese sfruttando il fatto che il fiume si trova nel punto più alto dell’alveo. L’acqua con la roggia sfruttando le pendenze arrivava molto veloce in paese e prima d essere usata dagli abitanti era incanalata verso il solo piccolo mulino del paese. I mulini erano di fondamentale importanza se si considera che la dieta medievale era particolarmente centrata sui cereali e quindi ogni paese doveva averne almeno uno nonostante al comune costasse moltissimo mantenere in efficienza il canale. L’edificio era piccolo e basso e viene citato per la prima volta in un documento del 1341 e poi descritto nella mappa del 1606 di Vivaro. Nel 1928 il molino fu acquisito dalla famiglia Cimarosti che nel 1936 ne produsse una radicale ristrutturazione abbandonando la ruota a favore di una piccola turbina idraulica. A quegli anni va ricondotta anche la profonda ristrutturazione dei canali di adduzione. Nel 1936 la pala fu sostituita con una turbina che muoveva le macine in pietra e un mulino a cilindri. Nel 1972 l’attività di molitura fu definitivamente interrotta e nel 2001 il mulino è stato acquistato dal Comune.

La Cortina e la chiesa di Vivaro

Anche l’insediamento di Vivaro era caratterizzato da una cortina difensiva popolare che proteggeva almeno le vite dei popolani esposti agli eventi bellici che si definivano di volta in volta lungo le principali vie di collegamento. Il primo documento che ricorda la cortina è relativamente tardo (1284), ma non è da escludere che l’opera risalisse per forma e tecniche costruttive al XI secolo. Il documento ricordava che cortina difensiva e le residenze degli agricoltori erano adiacenti: “Amicus de Fanna investivit jure Feudo recti dominum Corsettum de Maniaco de Decima Vivaro super Manso Sancti Mauri ante Curtinam Vivarii”. La cinta circondava la piccola chiesa del paese dedicata a Santa Maria Assunta.
La mappa del 1606 mostra come la difesa fosse sostanzialmente un aggere di terra prodotto dal degrado di un fortilizio costruito con cassoni di legno riempiti di terra. In età medievale non erano molto diffuse le costruzioni in muratura e nel medioevo anche le case del paese dovevano essere state costruite prevalentemente in legno. Nel catasto napoleonico si scorgono bene il mulino lungo la strada per il guado, l’area pseudo circolare della cortina e i masi che erano adiacenti alle opere di difesa. Era ancora chiaramente individuabile il fossato, mentre al centro troneggiava la nuova chiesa.
La chiesa fu ristrutturata nel 1815 in stile neoclassico e l’aspetto della vecchia chiesa rurale è del tutto perduto, ma non un lacerto della vecchia decorazione, la pietà con San Girolamo e Antonio abate dipinta a fresco da Gianfrancesco da Tolmezzo nel 1482. Il dipinto staccato e ora ricollocato all’interno faceva parte della complessa facciata affrescata.
Della vecchia chiesa all’interno si può notare anche un bella acquasantiera in pietra bianca e un altare in marmo di Carrara e Rosso Verona del 1742 attribuito a una bottega veneziana, con i due angeli realizzati dopo i lavori di restauro nel 1892.

La chiesa di Santa Fosca e Maura

Basaldella è un borgo agricolo legato a un guado e rifornito da una roggia deviata dal torrente Colvera poco a valle di Maniago. La roggia faceva un lunghissimo percorso in un’area relativamente stabile dal punto di vista idrogeologico arrivando prima a Tesis e poi a Basaldella. Nonostante Vivaro e Basaldalla fossero vicinissimi erano riforniti da acque completamente diverse, perché diverse erano le giurisdizioni medievali alle quali appartenevano. Il borgo alquanto modesto nelle dimensioni è però dominato da due elementi principali: la chiesa di Santa Fosca e Maura che prospetta su un interessante spazio pubblico che esalta la facciata neoclassica, e l’importante episodio architettonico di villa Cigolotti. La chiesa nella sua forma attuale va ricondotta a maestranze locali attive nel 1772, mentre il campanile, leggermente discosto, fu eretto quattro anni dopo. L’edificio ad aula rettangolare è tripartito in facciata attraverso un gioco di paraste poco pronunciate, con due nicchie con statue di sante nel registro superiore. All’interno molte decorazioni sono pure del XVIII secolo a partire dall’altar maggiore caratterizzato da un ricco paliotto in marmo. Nella chiesa si nota un altro importante altare settecentesco caratterizzato da un paliotto con specchiature marmoree rosse e gialle. Sopra allo stesso si slanciano verso l’alto due colonne con capitello composito che sorreggono un timpano curvilineo spezzato, mentre la cimasa è decorata con una conchiglia. L’altare conserva un’opera molto bella di Gaspare Quecchi, detto il Narvesa (1558-1639) che rappresenta un bellissimo Sant’Antonio con un acceso fuoco al petto. A sinistra c’è San Pietro e a destra san’Agata incorniciati in una prospettiva architettonica che esalta una grande profondità. All’interno della chiesa è visibile un altra importante opera del Narvesa, una pietà con San Girolamo, Sant’Urbano, San Silvestro e San Agostino Un terzo altare seicentesco conserva una nicchia con una interessante madonna lignea. Tra gli altri arredi va notato un interessante fonte battesimale a colonna del 1678.

Villa Cigolotti

I rapporti che intercorsero tra la famiglia Cigolotti e Basaldella sono ancora poco indagati. La famiglia veniva dal Trentino e si insediò a Montereale Valcellina alla metà del Seicento coordinando il commercio del legname e impiegando gli utili nell’acquisto di terre. Nel 1736 la famiglia fu aggregata al consiglio nobile di Sacile seppure non fosse particolarmente legata a quella città. La ricchezza borghese si vestiva quindi di una patina di nobiltà urbana ma la famiglia decise di costruire la propria dimora non ristrutturando il palazzetto di Montereale ma costruendo un edificio dal dichiarato impianto di villa che fosse in grado di mostrare una immagine colta e aggiornata da un punto di vista culturale. Non si deve escludere il fatto che probabilmente proprio i Cigolotti contribuirono alla riforma della chiesa e dello spazio della piazza decidendo di modellare con l’inserimento della villa, l’intero paesaggio del borgo rurale. La villa si distaccò dalla strada dalla quale era diaframmata da un alto muro aperto con un arco d’ingresso. Il primo recinto a sud era strutturato come un giardino formale, come lascerebbero intendere alcune foto storiche. Alle spalle, invece, viene facile credere che il giardino fosse in realtà un ampio brolo solcato da un viale in asse con la villa e tangente a un tumolo, chiamato “la montagnola” che potrebbe avere una origine preistorica tanto che alla collina era stato affiancato un altarino campestre(S. Marco) e sopra la motta è stata piantata una croce. I lavori iniziarono nel 1740 ed erano stati affidati a un’impresa di muratori comacini, i Lepori provenienti da Campestro presso Lugano. La squadra dei muratori si trovò probabilmente a recuperare delle murature preesistenti e per questo motivo è possibile giustificare alcune imperfezioni nella composizione planimetrica dell’edificio. Nonostante tutto i Lepori cercarono di interpretare il tema della villa veneta tripartita con salone passante. L’edificio decorato con gusto si è conservato in modo straordinario ed è in grado di trasmettere il senso dell’abitazione di campagna nella declinazione domestica delle popolazioni friulane. Non a caso al piano terra fa mostra di se un enorme camino alla friulana (fogolar).

La chiesa di Tesis

Anche l’insediamento di Tesis aveva un carattere rivierasco, ma questa volta anziché porsi in relazione ai grandi fiumi alpini, il Cellina e il Meduna, si poneva sul meno irruento Colvera nel punto in cui l’importante strada che scendeva dalla Val Cellina e Maniago incrociava il fiume. I terreni erano distribuiti lungo la riva destra del fiume e godevano della possibilità di intercettare parte dell’acqua che si disperdeva tra le ghiaie. Nonostante tutto anche Tesis per esistere aveva avuto bisogno della costruzione di una roggia artificiale che alimentava l’ennesimo mulino a monte del villaggio. Alcuni vorrebbero l’esistenza di una cortina attorno alla chiesa ma al momento nulla lo prova. La chiesa di Tesis è l’edificio, per quanto modesto, più importante del borgo agricolo. La parte più antica dell’edificio corrisponde alla sacrestia e al campanile, ma sappiamo che la chiesa, dedicata a San Paolo Apostolo, fu ristrutturata nel 1529. Altri lavori importanti furono eseguiti tra il 1890 e il 1910. A quel periodo va riferito l’altar maggiore di scuola friulana con il paliotto in marmi policromi e le due statue dei santi Pietro e Paolo. L’altro altare è invece della prima metà dell’800 ed è pure il frutto di maestranze friulane. L’opera d’arte più interessante è senza dubbio il fonte battesimale in pietra ornato lungo i bordi con un motivo a catena, mentre nella parte superiore ci sono delle testine d’angelo in rilievo sopra le quali scorre una dedicazione. Anche l’acquasantiera sembra uscire dallo stesso spirito culturale di una bottega che si rifà alla scuola del Pilacorte.

Il guado del Colvera

 Le grandi strade medievali che attraversavano i guadi del Cellina, del Colvera e del Meduna erano naturalmente dirette alla volta delle città di Spilimbergo e di San Daniele attraverso il guado sul Tagliamento di Carpacco.
Il guado di Tesis aveva una importantza determinante perche transitava per la punta dei territori di Arba e permetteva di raggiungere i magredi di Tauriano sulla sponda sinistra del Meduna. Una delle cose più interessanti nel rapporto tra il paese e la sua agricoltura e il fiume è il ruolo assunto in questo caso dalla vegetazione lungo il fiume con la costruzione di un sistema boscato che si integra con le ampie masse arboree delle terre poste a meridione del guado e che sono uno dei pochi esempi di paesaggi a campi chiusi di questo territorio.

Incrocio tra Strada Querina e la strada per Vivaro

I toponimi ricordano il fatto che in questi territori i paesaggi magredili fossero la memoria di una letto amplissimo e segnato da diversi terrazzi costruiti da depositi portati dalle acque e altre volte da erosioni. La strada che si muoveva da Cordenons verso il centro della zona dei magredi si chiamava Savoledi, ricordando nel toponimo la presenza di sabbie sottili che si depositavano nei punti in cui le acque erano meno veloci e depositavano le sabbie. Tutta questa zona del Venchiaruzzo ricordava nel toponimo la presenza spontanea dei salici e aveva molte aree aride ancora nell’800. La strada Querina, invece era la strada che metteva in collegamento il guado del Vinchiaruzzo con San Quirino. Il guado storico che collegava il Friuli occidentale poco a valle era segnato da una croce la Croce del Venchiaruzzo che proteggeva i pellegrini in transito e allo stesso tempo era un segnale all’interno di un paesaggio lunare. Se la strada Savoledi è grosso modo rimasta intatta nel paesaggio dei riordini fondiari, la vecchia strada Querina è stata completamente cancellata a parte il tratto dell’incrocio tra le due direttrici.

La strada Maestra per Udine

Prima che in età napoleonica si decidesse di costruire la Strada Maestra d’Italia, sostanzialmente sul sito dell’attuale statale 13, la storica strada postale che collegava Venezia a Udine transitava a monte delle risorgive nei punti in cui il tetto del Meduna era più ampio. Il transito della corriera postale, ma anche di tutti i carri dei mercanti erano possibili solo mantenendo in efficienza i guadi sul fiume. Questa operazione dissanguava il comune di Cordenons e quello di Zoppola. La maggior parte dell’anno si attraversava una sorta di mare di ghiaia, ma quando arrivava il cattivo tempo gli attraversamenti si interrompevano. La vecchia strada raggiungeva il Vinchiaruzzo in corrispondenza dell’omonima croce che era un segnale per il viandante all’interno di un paesaggio di prati aridi magredili. Qui la strada si divideva. La principale prendeva la direzione del guado sul Tagliamento a Valvasone, mentre l’altra si dirigeva a monte verso quello di Gradisca. Il 13 marzo del 1782 il papa Pio VI diretto a Vienna transitò per Pordenone e salì al guado dove il rallentamento del corteo che lo accompagnava permise alle popolazioni rivierasche di ricevere una benedizione prosrpio al centro di questo straordinario ambiente: “Li comuni poi delle ville di Cordenons, Zoppola, Orzenis, Castions, Arzene et altre aspetarono a piè fermo S. S. processionalmente, stando in ginochio furono tutti dal santo padre benedetti nel mezzo delle grave di Cordenons e di Murles”. Questo ambiente oggi è profondamente ristrutturato a fini produttivi e in sostanza le praterie aride sono ridotte solo a pochi brandelli lungo il corso d’acqua. Questa zona ricca di sabbie è l’area più caratterizzata dalla pregevole produzione dell’asparago.

La zona delle risorgive e il SIC

 
Una delle zone di risorgiva più interessanti del sistema idrografico che fa capo al Meduna è quello che oggi è tutelato dall’Unione Europea come SIC della zona delle risorgive del Vinchiaruzzo. In realtà l’area interessa la zona posta a valle della località Vinchiaruzzo e identifica un’ampia area di campi alternati a prati e a qualche piccolo e raro boschetto.
L’immagine attuale rappresenta invece un paesaggio in cui la componente arborea è predominante sulle altre, mentre le praterie umide si sono di molto ridotte. Del resto le pratiche d’uso agrario sono cambiate nel tempo e dopo una forte espansione degli anni ‘80 del secolo scorso degli arativi per seminare mais oggi ci si accorge che molti ambienti vengono abbandonati trasformandosi in boschetti e perdendo valori ecologici importanti. Un tempo qui c’erano anche dei ricoveri pastorali “tese di Sclavonins” che permettevano a quelli di Cordenons di pascolare in un ambiente tanto particolare e che giungeva fino alla località Tajedo.
Questi ambienti che vedevano un numero notevole di olle di sorgiva erano una importante fonte di reddito per l’economia dell’erba perché qui erano possibili tre o quattro tagli all’anno seguiti dal pascolo.
Oggi rimangono ancora delle aree coltivate all’interno dell’ambiente tutelato, ma in sostanza nella zona le azioni del Piano di Gestione dovrebbero poco alla volta portare alla ricostruzione delle praterie.

Acque dalla montagna

Evidentemente tutte le acque arrivano dalla montagna, soprattutto i grandi fiumi, però lo speciale incontro tra i corsi d’acqua di risorgiva e il Meduna dava vita ad ambienti molto particolari, ricchi di ghiaie e sabbie portate dalle esondazioni del grande fiume colonizzate da praterie umide e a volte ricoperte da boschetti di salice che venivano capitozzati. Questa sorta di ambienti gestiti anche per contrastare le deviazioni del fiume si contrapponevano all’alveo ghiaioso del Meduna chiamato Zellina nella carta ottocentesca. Qui si univano i rii delle risorgive con le ultime ghiaie del fiume alpino. Questo ambiente oggi è profondamente trasformato e segnato da un nuovo manufatto idraulico, il canale di scarico della centrale idroelettrica di Cordenons. Proprio, qui, nella zona del Rojale oggi emerge quasi all’improvviso il canale artificiale che intercetta le acque del lago di Barcis e che le conduce a Tremeacque all’interno di condotte in pressione rifornendo una serie di impianti di produzione energetica. In questo caso l’ambiente rurale è segnato anche da una infrastruttura energetica che ha profondamente modificato il regime delle acque in quest’area. Il canale artificiale è una sorta di barriera fisica tra le due rive rimboschite.

Ponte del Lago e cartera Venzon

Nel Seicento a Cordenons furono costruite ben due cartiere attrezzando salti di quota su piccoli corsi d’acqua, come per la cartiera Bellasio (1630) e la Viazol. La portata costante era un elemento di garanzia per la buona conservazione degli apparati meccanici. La prima nacque sfruttando il Noncello appena nato e la seconda il Rio Viazol che è l’ultimo affluente del Meduna su questo tratto della riva destra. Nei pressi del Pasch storicamente c’erano due diversi insediamenti umani, quello agricolo di Siduzza e quello produttivo della Cartera Venzon posta l’acqua detta anche Gleriuzza. La forma del disegno del fiume con stretti meandri ci rende chiaro che quest’ambito era segnato da una depressione dotata di poca pendenza e forse anche per questo il ponte che attraversava il corso d’acqua si chiamava Ponte del Lago. Probabilmente in occasione di forti piogge tutta l’area verde a monte diventava un laghetto. Tra il ponte e la cartiera c’erano delle ampissime praterie umide tenute a falcio e oggi completamente scomparse. Chi percepisce oggi questi luoghi ne ha un’impressione del tutto diversa. Le colonizzazioni agrarie hanno ridotto le superfici prative alle sole aree depresse e queste, non più falciate, sono diventate dei boschi anche di notevole dimensione.