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Comune di Pasiano Ex monastero camaldolese – Villa Luppis L’introduzione di un monastero camaldolese a Rivarotta va forse attribuita ai signori di Prata.

Comune di Pasiano

Ex monastero camaldolese – Villa Luppis

L’introduzione di un monastero camaldolese a Rivarotta va forse attribuita ai signori di Prata. Certo è che nel 1262 il monastero riceveva delle offerte grazie al testamento di Guecello II: “reliquit Ecclesie Sancti Martini rupti X libras denariorum quibus emantur libri in dicta Ecclesia”. L’edificio era stato costruito in adiacenza al castello di Ghirano che come ricordava il testamento si estendeva anche sella riva sinistra del Meduna.
Il complesso monastico, di San Martino Rotto, ora Rivarotta, filiale di quello veneziano, ebbe alterne vicende e lentamente entrò in crisi fintanto che fu soppresso. Nell’Ottocento i Chiozza, che avevano allestito delle fornaci di mattoni a Rivarotta, lo trasformarono in una struttura civile pur mantenendo gran parte delle dipendenze conventuali. La trasformazione in villa va attribuita alla successiva proprietà dei Luppis di Ferrara.
L’edificio principale di pianta rettangolare si eleva per due soli piani ed è avvolto in un disegno di parco che si divide tra una definizione di giardino formalista a sud e uno spazio informale a nord.
Il fabbricato principale è segnato in facciata da quattro archi ribassati derivati dalle strutture originarie, mentre il piano nobile recupera la geometria strutturale con una teoria di finestre rettangolari. Una fascia marcapiano divide i livelli e un frontone a profilo mistilineo corona la facciata. Nel parco e non solo sono presenti molte statue che probabilmente sono frutto di recuperi.
L’oratorio, addossato alla villa, vuole ricordare l’originaria chiesa conventuale dedicata a San Martino. E’ leggermente ruotato come asse e ha un portico su quattro esili colonne doriche con basamento.


La chiesa di San Paolo

La chiesa nacque in un’epoca non precisata lungo la Strada Romana e forse va ricondotta a culti precedenti alla ripresa medievale. Il campanile è la parte più vecchia perché sappiamo che risale al 1378 (parzialmente rifatto nel 1564-65 ), mentre la sede di una Pieve è testimoniata a partire dal 1186. L’edificio doveva essere molto prezioso per affreschi e arredi ma fu in gran parte demolito nel 1898 per ampliarlo lasciando solo il il coro che oggi corrisponde alla Cappella della Beata Vergine del Rosario. La riforma permise di orientare il fabbricato verso la strada con una nuova aula consacrata nel 1900. L’edificio fu restaurato nel 1999 e in quell’occasione furono recuperati alcuni importanti affreschi.
Tra questi la cinquecentesca Madonna con bambino benedicente, una seconda Madonna della fine del XV secolo posta entro una cornice architettonica seduta su un trono pure in marmo. Un terzo affresco rinascimentale è testimoniato da un lacerto che mostra la testa di un Santo Vescovo con pastorale.
L’altare maggiore con le statue dei Ss. Pietro e Paolo è opera di Pietro Nardi (1796). Di un certo interesse sono anche gli altari minori a partire da quello del Rosario ora dedicato a San Giuseppe, in legno dipinto, opera di Giovanni Auregne (1637-38), fu dorato da Giovanni Battista Sebenico (1638-41). La statua di San Giuseppe è tardo ottocentesca.
L’altare di S. Giovanni, è di Giuseppe Caribolo, fu scolpito da Giovan Battista Bettini (prima metà del sec. XVIII). La pala è più vecchia dell’altare e va ricondotta all’inizio del Seicento e mostra San Floriano, Sant’Antonio abate e Sant’Antonio da Padova che tende un giglio verso Gesù.
Altri due altari laterali, quello di S. Antonio e quello della Madonna del Rosario hanno strutture lapidee recuperate ma sostanzialmente settecentesche e due statue del 1933 di Giuseppe Callisto Scalambrin. Interessante anche il fonte battesimale con soprastante statua del Battista.
Dal 2013 la chiesa ospita anche la pala di San Girolamo Emiliani che presenta i poveri alla Madonna degli anni Trenta del Seicento firmata da Alessandro Maganza.
All’esterno il sagrato è anticipato da due statue del ‘700 raffiguranti la Fede e la Speranza.


La motta fortificata diventa villa

I signori di Pasiano, fino al 1190, furono i di Caporiacco, poi i di Prata e in seguito i Montereale Mantica, ma in ogni caso il centro del potere giurisdizionale poteva essere identificato nel piccolo fortilizio a motta che era costruito sui bordi del fiume Fiume, su un terrazzo particolarmente ripido. Nel documento i di Caporiacco riconoscevano di avere la motta con l’abitazione, “domibus” e una struttura difensiva più ampia e abitata da popolani “terra circa”. Nel 1262 Guecello di Prata ricordava nel suo testamento: “Motta et circam Passilliani”, ma non la casa che nella logica della vicinanza alla città fluviale era del tutto inutile e ormai deperita. Evidentemente il tipo difensivo aveva conservato un carattere militare pur rimanendo una struttura minore nel panorama dei luoghi muniti della famiglia. Poco sappiamo dai documenti sulla forma del piccolo presidio militare mentre le notizie aumentano nel momento in cui al fortilizio si sostituisce una residenza dopo che il luogo era stato acquistato dai Montereale a metà del Quattrocento. L’edificio prese la forma di una villa con la radicale riforma della seconda metà del ‘600 dotando la residenza anche di un giardino formale sul fronte.
In seguito (1890-1899) fu aggiunta dai nuovi proprietari, i Saccomani, una barchessa alquanto moderna con decorazioni a losanghe composte da mattoni. La villa ha pianta rettangolare, tripartita come nella tradizione veneta con salone passante e stanze laterali. I prospetti longitudinali sono composti da un ritmo compatto di finestre rettangolari esaltate nel corpo centrale da una trifora al primo piano segnata da un piccolo timpano nella parte centrale.
Dai Montereale Mantica la villa passò poi in mano alla borghese famiglia dei Saccomani e successivamente al Comune di Pasiano che la adibì a sede comunale.


Mulini dei Montereale

A fianco della Motta fortificata fin dal medioevo i signori di Caporiacco fecero costruire almeno due mulini che servissero per Pasiano e che non corressero il pericolo delle piene violente. Con la creazione di una piccola deviazione e di un salto per la vasca di carico si ottenne la soluzione ottimale che ancora oggi caratterizza questo incrocio tra acqua e strada che un tempo era osservato dalla fortezza dei signori. La prima volta che compare la denominazione “molini” è in un documento del 1190 con il quale i di Prata acquisiscono i diritti originari dei di Caporiacco su “duabus roris molendinorum in ipsa curia in flumo posita”. In quell’epoca il molino era dotato di sei macine mentre si hanno notizie che nel XV secolo fu realizzato anche un edificio da sega sulla sponda destra. L’edificio più antico del complesso dei mulini sorge lungo la sponda sinistra del fiume Fiume: i due edifici costituiscono i molini da grano ad acqua, ciascuno con quattro ruote, citati in vari documenti e stampe. L’intero complesso dei Vescovi di Concordia gestito fino al 1190 dai signori di Caporiacco passò ai signori di Prata fino al 1419 data della caduta del castello di Prata per mano dei Veneziani, prima di passare ai Montereale.


La chiesa di San Andrea

La vecchia chiesa di San Andrea era posta isolata sul bordo del terrazzo fluviale, ma nel secolo scorso l’abitato di San Andrea si consolidò attorno alla fabbrica dei mattoni e alla fine qui fu costruita la nuova chiesa dedicata all’apostolo.
La vecchia chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Andrea, viene menzionata per la prima volta nel 1190 facendo riferimento al borgo di contadini: “S. Andrea in Pasiliano” e compare anche nel testamento di Guecello II di Prata del 1262: “Ecclesie de Sancto Andrea”.
I due edifici sacri hanno un valore diverso: la chiesa vecchia per lo spettacolare ambiente che da qui si percepisce in una forma ancora unitaria, visto che all’interno è rimasta solo una rustica acquasantiera seicentesca e l’altare con mensa sporgente ornata a specchiature geometriche, su cui poggiano lo zoccolo e l’alzata lignea che ospita una tela novecentesca.
Nella nuova chiesa sono stati trasferiti molti degli arredi e tra questi la pala d’altare settecentesca che mostra in alto, avvolta da chiare nuvole luminose Maria con in braccio il Bambino che volge lo sguardo al cielo. In basso si vedono uniti i santi di Pasiano con quello del villaggio: san Pietro con le chiavi e un libro, sant’Andrea che sorregge la croce e porta la mano destra al petto, san Paolo che impugna la spada.


L’alveo del fiume Fiume

La bretella che oggi collega le due strade parallele di lungofiume vale la pena percorrerla su ciclabile fino al centro del ponte. Da qui la vista sul fiume è bellissima, ma soprattutto permette di capire come siano larghi gli spazi golenali e piccolo il corso d’acqua. Il fiume in condizioni normali non ha capacità erosiva se non provocando meandri che consumano poca energia su poca pendenza, invece l’ampio e dritto segno di erosione racconta la presenza di acque antiche che transitavano molto più copiose venendo dai monti. La giustificazione a questo contrasto può stare nel fatto che il letto di acqua di risorgiva si è assestato su un paleolaveo precedente. Infatti recentemente il prof. Alessandro Fontana ha dimostrato che questo disegno fluviale fu costruito migliaia di anni fa da un ramo del Tagliamento.


Villa Comparetti – Morpurgo

La villa fu costruita probabilmente nell’ultimo quarto del XVIII secolo da Andrea e Pietro Comparetti, il primo professore di medicina all’università di Padova, il fratello agronomo e specialista sulla gestione dei boschi. Possiamo credere che fu soprattutto il secondo a intervenire nella costruzione di un complesso agricolo funzionale e borghese che si staccava completamente dal concetto della villa veneta. Di fronte all’edificio non c’era un giardino ma un cortile attraverso il quale entravano e uscivano i prodotti della terra visionati con attenzione dal proprietario. Il carattere concreto e illuminista dell’azienda fu interpretato anche dai nuovi proprietari, gli ebrei triestini Morpurgo, nel 1872. Il grande recinto agricolo è composto da edifici isolati che usano lo spazio interno con la sola esclusione della chiesetta di San Anna che si affaccia sulla strada. Il corpo dominicale, con pianta pressoché quadrata, timpanato è connotato da tetto a padiglione, è alto tre piani ed è scandito da semplici fonometrie rettangolari. L’ingresso architravato vede la corrispondenza al piano nobile dell’affaccio del salone passante con una portafinestra su balconcino; sopra corona un timpano con oculo.
L’oratorio dedicato a Sant’Anna dichiara di essere nato contemporaneamente all’impianto dell’edificio civile. Ha un’aula rettangolare or vuota degli arredi e un campanile a vela rivolto verso il cortile. La chiesetta di San Anna aveva una certa fama per chi si recava a chiedere alla santa un aiuto per le giovani incinte e per proteggere madre e bimbo durante il parto.
Uno degli ultimi fattori dei Morpurgo fu Ulderico Enzo Damiani, il padre del regista Damiano Damiani nato proprio a Sant’Andrea di Pasiano.


Il “castello” della Mantova

Il “Castello della Mantova” è una casa colonica progettata alla fine dell’800 per insediare popolazione contadina in un settore dello storico bosco delle Mantova demolito già nel XVII secolo per ricavare terra coltivabile. Non c’entra nulla con i castelli e questa definizione gli viene solo dal fatto che il fabbricato agricolo è dotato di una torretta. Con ogni probabilità fu costruito dai triestini Morpurgo che subentrarono nelle proprietà dei Comparetti (1872) e che si posero il problema di modernizzare e ampliare l’azienda. L’edificio era progettato per ospitare almeno tre famiglie di agricoltori e una stalla piuttosto grande. Un lungo porticato al piano terra diventava uno spazio utile per lavorare al riparo dalla pioggia. L’edificio aveva stanze d’abitazione al pianoterra e al primo, mentre un ampissimo sottotetto era adibito a granaio e per l’allevamento dei bozzoli da seta. Questi complessi agricoli occupati da famiglie non proprietarie erano anche chiamati boarie perché avevano come finalità economica principale la produzione della carne.


Il bosco della Mantova

Il Bosc de la Mantova è ricordato in un documento del 1237, mentre in citazioni successive compare in varie forme lessicali (Mantua, Mantoa, Mantova). Oggi di questa grande foresta planiziale non rimangono che pochi brandelli conservati dal comune, mentre lentamente lungo il Rio Luma si stanno formando lentamente boschetti che un tempo non c’erano. Quello che invece è importante è che queste poche alberature sono una banca biogenetica importante per recuperare territorio alla natura. I boschi planiziali sono ridotti e fragili e solo azioni per il loro recupero permetteranno la ricostruzione di ambienti complessi. Queste pratiche di coltivazione ed espansione erano proposte anche dallo studioso Pietro Comparetti che abitava vicino al bosco e nel suo volumetto del 1798 proponeva la conservazione del bosco con queste parole: “Ma se in luogo di piantar il seme col vanghetto, o di trapiantar le tenere pianticelle levate dal vivajo, si volesse la riproduzione della qüercia, senza usar alcuna particolare attenzione, allora, oltre la necessità, che vi fossero delle querce d’alto fusto, che producessero il seme, da cui naturalmente cadesse, esser vi dovrebbe ancora il suolo disposto a ricever detto seme, nel quale vegetar dovesse. L’erba in tal caso, sarebbe nociva, non tanto per l’incremento de’ piccioli virgulti quanto per la propagazion della specie. Nel Bosco della Mantova di pubblica ragione, situato nel Friuli si vede uno spazio considerabile di terreno, spoglio affatto di dolce legname e tutto dall’erba ricoperto. La vegetazion di pianta alcuna ivi non comparisce all’occhio degli astanti; a differenza dell’altre parti di detto Bosco in cui non essendovi erba, le piante legnose pullulano con la maggior facilità.
Chị bramasse far uso della trapiantagione delle picciole querce per guadagnare del tempo, potrà levarne di queste in quelle situazioni boschive; nelle quali il numero loro soverchio richiedesse un diradamento, senza punto ricorrere ad alcuna sorta di artifiziale vivajo”.


I tre scalini del diavolo

L’attuale area naturalistica de I tre scalini del diavolo altro non è che il recupero naturalistico di un’area che nel passato era limitrofa al Bosco Comunia di Sotto e che era utilizzata per uno sfruttamento agricolo importante.
Già nelle cartografie dell’800 si nota come lungo la Luma non fossero messe in attenzione strutture alberate che invece oggi caratterizzano l’area naturalistica. Il paesaggio tipico di queste aree depresse era segnato dalle praterie umide che davano ai proprietari la possibilità di diversi tagli di erba. Qui invece la crisi del prato e le difficoltà di coltivare un’area umida sta producendo un paesaggio forestale del tutto nuovo. Qui le specie che erano tipiche dei boschi scomparsi lentamente si stanno re insediando poco alla volta. L’istituzione di forme di protezione attiva in questa zona è stata promossa dal locale WWF a partire dal 1994 con l’intento di costruire un ambito di rifugio per la fauna selvatica caratterizzata da zone umide e strutture arboree allora ancora ridotte. L’area protetta si trova lungo il canale artificializzato della Luma e ha una superficie di poco più di due ettari. Nella vegetazione attorno al canneto spiccano il salice bianco, l’olmo e l’ontano comune oltre alla farnia, la sanguinella, il biancospino, il gelso, il prugnolo e il sambuco nero. Tra le specie floristiche si trovano il favagello, il campanellino estivo, il sigillo di Salomone, il giaggiolo acquatico, la salcerella ed il nannufero. La tipica vegetazione offre rifugio a piccoli animali, dalla donnola alla faina.


Il bosco diventa un’area residenziale

Bosco Comunia di Sopra e Bosco Pizzalo non ci sono più perché sono stati spianati prima per ricavare piccoli poderi per la produzione di foraggio e più recentemente questi spazi, troppo piccoli per essere produttivi da un punto di vista agricolo, sono stati utilizzati per costruire nel periodo del boom economico case in fin dei conti modeste. Questo disegno agrario è diventato un disegno insediativo, ma soprattutto il paesaggio prodotto è un paesaggio a campi chiusi a volte abitati.
Via Nuova Fratte era una strada di frazionamento della proprietà pubblica mentre via Crozzoli era una sorta di confine tra il bosco Pizzalo, a sud, e i campi di Fratte a nord. Fratte stesso era un insediamento lineare realizzato probabilmente del tardo medioevo grazie a una operazione di disboscamento, cioè frattare, che aveva già ridotto il bosco originario. Ancora oggi il paesaggio mostra come le aree di più antico disboscamento siano caratterizzate da un paesaggio a campi aperti, mentre le aree di disboscamento ottocentesco hanno una maggior presenza di alberature e siepi.
Nelle spesse siepi di questo ambiente moderno albergano tutte le componenti botaniche della vecchia foresta.


La chiesa di Bannia

Chiesa a pianta centrale eretto su progetto dal progettista e imopresario gemonese Girolamo D’Aronco nel 1899. Questo intervento cancellò completamente l’edificio preesistente del quale si sa ben poco sulla sua forma architettonica.
I lavori per la realizzazione della chiesa dedicata alle Sante Perpetua e Felicita cominciarono nel 1880 e furono portati a termine solo nel 1899. La nuova chiesa ne sostituiva una, non la prima, costruita nel 1488 e demolita nel 1870. Nell’intento c’era l’esigenza di aumentare l’aula per una popolazione, ma anche il desiderio di aggiornare il linguaggio dell’edificio che rappresentava la comunità. D’Aronco propose non a caso un edificio in stile neo-gotico, ma proponendo una pianta ottagonale con presbiterio, rialzato di cinque gradini, di forma rettangolare, terminante in un’abside semicircolare. Da questo punto di vista l’edificio è estremamente significativo perché anche le opere d’arredo sono perfettamente coerenti con questo stile. Le opere in legno seguono lo stile delle decorazioni architettoniche con grande coerenza.
Fanno eccezione solo le opere d’arte salvate dalla vecchia chiesa a partire dal pregevole altar maggiore e riferibile al “altare di pietra fatto in l’anno 1761 ” pagato al “Magistro Nicolò Elia tagliapietra” e che sul finire dell’800 fu adattato alla nuova chiesa. Ai lati della composizione lapidea furono collocate le due statue preesistenti alla fabbrica del nuovo altare, le statue delle Sante Perpetua e Felicita. Non si tratta di opere in marmo, ma di due opere in legno realizzate alla fine del XVI secolo e poi trattate con una particolare tecnica di marmorizzazione per armonizzarle con l’altare, come ricorda un documento del 15 agosto 1782: “Dovuto far restaurare le due statue in legno scolte delle SS. Felicita e Perpetua titolari della chiesa, cioè significar i colori a oglio in finto marmo essendo spariti”. La statua del Cristo Risorto posta sulla sommità del tabernacolo sembra risalga al 1761.
Nella chiesa fu rimontato anche un altare minore dedicato alla Madonna che si ritiene corrispondere a “l’altare nuovo lavorato dal Prof. tagliapietra […] Nardi di Pordenone” inaugurato il 18 novembre 1787. Un terzo altare, dedicato a San Giuseppe del 1902 ripropone una serie di temi stilistici centrati sull’interpretazione romantica dello stile gotico. L’autore Carlo Marini di Pietrasanta (Carrara) predispose un altare neogotico in marmo bianco di Carrara e resta documentazione del fatto che “viene pagato un acconto per l’altare di S. Giuseppe” con tabernacolo con sportello in legno intagliato e dorato. Anche la statua è dello scultore toscano come ricorda un’incisione nel basamento: “CARLO MARINI/ FECE/ 1902”.
Tra le altre opere interessanti presenti nella chiesa va ricordata un’acquasantiera dell’inizio del ‘500, il “Crocifisso grande” che “si porta nel le Processioni” è probabilmente seicentesco, mentre il San Giovanni Battista scolpito per il battistero da Vincenzo Maroder, scultore in legno e doratore
pordenonese nel 1902, per finire con la tela dedicata alla morte di San Giuseppe della fine del ‘700.
In posizione isolata, a sinistra dell’edificio, svetta la torre campanaria pure in stile storicista progettata dall’architetto Domenico Rupolo sempre in stile neogotico.

La strada romana interrata

La strada Postumia nel medioevo non era più visibile per la maggior parte del suo tracciato eppure alcuni tratti di strada in qualche modo furono riconosciuti in epoche successive durante le complesse fasi della nuova colonizzazione basso medievale. Infatti non si spiegherebbe come mai la direttice della strada romana a Bannia segua perfettamente l’orientamento della strada e l’organizzazione dei campi le direttrici ortogonali della centuriazione. In questo caso il canale della bonifica è una sorta di sezione parallela alla storica strada romana. Una strada che con il tempo e l’azione degli agenti atmosferici e naturali (impaludamento, subsidenza, forestazione spontanea) finì per scomparire quasi completamente. Gli orientamenti dell’arganizzazione territoriale mantennero un vago orientamento simile alla centuriazione, ma in realtà la strada scomparve nelle depressioni e perché nascosta dalla deposizione di limi e detriti vegetali. Sepolta in mezzo alla foresta la strada romana scomparve mentre alcuni percorsi perpendicolari e paralleli alla strada rimasero in uso come la direttrice Bannia-Fiume.

Marzinis: un paese abbandonato e un bosco planiziale

Nel Medioevo Marzinis era un comune autonomo con una popolazione concentrata probabilmente attorno all’attuale chiesetta poco distante dal Sile, ma di quel assetto antico rimane davvero poco. Il villaggio si trovava all’interno di un paesaggio caratterizzato da ampie aree pubbliche di pascoli e boschi. Un documento del 1340 ricordava come il patriarca Bertrando permetteva a quelli di Cusano di pascolare, raccogliere strame di palude e fieno, ma “nec non quod buscare possint super territorio nostro a Marzinis usque ad Fossam malariam, preterquam in silvis et nemoribus bannitis”. Si trattava di un insediamento in crisi che il 18 dicembre del 1352 finì nelle mani di un banchiere fiorentino che viveva a Udine, Manfredo Soldonieri. C’erano quindi diritti complessi su questo territorio che nel 1429 per 367 ducati d’oro fu venduto da Odorico Soldonieri di Udine ai Panciera che dal 1403 erano diventati signori di Zoppola. Questa con un’azione di prestiti e di acquisti contribuì a una sostanziale crisi insediativa determinando il controllo della famiglia feudale sostanzialmente su tutte le terre del villaggio. Da allora il villaggio si trasformò in una azienda e le successive modifiche modificarono in modo radicale l’insediamento. Lungo il fiume i Pancera costruirono un mulino e una cartiera.
Marzinis fu rifondato nella seconda metà dell’800 dai Panciera ricostruendo quasi tutti gli edifici per il bestiame e gli agricoltori.
La popolazione crebbe al punto che il 18 gennaio del 1910 in un annesso dei Panciera fu attrezzata una scuola pubblica per i bambini della borgata.
Nel 1940 fu costruito l’edificio adibito a stalla facente parte del complesso a corte a cui si accedeva tramite in cancello affiancato da un campanile. Il lato prospiciente la corte presenta due piani aperti per ricovero attrezzi e macchinari. Le cambiate esigenze aziendali hanno desertificato il paese e le architetture di un secolo prima sono diventate progressivamente delle affascinanti rovine. Lo stesso è accaduto per l’importante cartiera e anche per il maglio e il mulino posto più a valle. I terreni coltivati hanno assunto un aspetto mano a mano più semplificato mentre le aree più umide e la zona delle olle si sono progressivamente trasformate in boschetti che sono stati tutelati dalla UE come SIC. Eppure questi erano luoghi dei boschi patriarcali citati in un documento del 1343. Oggi il borgo, quasi deserto, dialoga con una piccola selva abitata da animali selvatici.


La chiesa di San Girolamo a Marzinis

Nata in adiacenza alla vecchia strada Postumia la chiesetta di San Girolamo di Marzinis era il centro di un villaggio sparso che ora non si vede più, come non si percepisce la maglia centuriata dell’agro concordiese. Eppure la chiesa sorse a fianco della strada romana. L’edificio fu probabilmente ricostruito o ampliata dopo che questo territorio entrò a far parte della giurisdizione dei Panciera i nuovi signori di Zoppola (1403) e il bel ciclo di affreschi conservato all’interno lascerebbe intravvedere l’intervento economico della famiglia documentata da due stemmi.
La chiesa, in seguito agli interventi di restauro iniziati ancora nel 1995, ha rivelato la presenza di affreschi straordinari, certamente per l’apparato iconografico, ma soprattutto per la paternità del loro autore: Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone.
La chiesetta ha aula unica ha un presbiterio rettangolare rialzato e coperto da una volta a crociera affrescata nei primi anni del ‘500 e ora restaurata nella complessità iconografia di un ciclo che nelle pareti era stato coperto da uno strato di intonaco (2004-2007). Nelle vele sono rappresentati i Padri della Chiesa seduti su troni marmorei rinascimentali, mentre negli angoli inferiori delle quattro vele si trovano i simboli degli evangelisti e quattro profeti. Nel sottarco sono rappresentate a mezzo busto alcune sante, tra le quali Barbara, Lucia, Orsola, Caterina e Agata. Gli affreschi recentemente scoperti sotto agli intonaci delle pareti raccontano la vita di Maria alla quale era originariamente dedicata la piccola chiesetta.


La strada Postumia a Marzinis

Poco a monte della chiesetta di San Girolamo, inquadrata da un doppio filare di alberi, si rintraccia la strada Postumia in tutta la sua considerevole dimensione. Il rilevato stradale è ancora visibile rispetto ai piani di campagna e al centro del rilevato corre la strada sterrata non dissimile dalle altre del territorio. Da qui fino a Casarsa il manufatto può essere riconosciuto nella sua interezza.
La strada Postumia attraversava tutta la Pianura Padana collegando il Mar Ligure con l’alto Adriatico e Aquileia. La costruì Postumio Albino nel 148 a.C per collegare il porto genovese con quello adriatico. Le finalità della strada erano militari perché permetteva di spostare velocemente l’esercito in una pianura incerta dal punto di vista idrogeologico e non ancora colonizzata. Sul finire dell’800 Camillo Panciera dei signori di Zoppola tentò una ricognizione accurata individuando un tracciato che da Pasiano saliva in direzione nord-est alla volta del Tagliamento giungendo nelle vicinanze di Valvasone. In periodo basso medievale, quindi durante le fasi della colonizzazione insediativa del territorio, la strada entrò completamente in disuso e non fu utilizzata come elemento di centralità per un nuovo villaggio. Al di sotto di Marzinis foreste e paludi si svilupparono con l’abbandono altomedievale, ma a monte, anche priva di manutenzione, la strada si conservò.

Come fosse una immagine il seguente testo

Il 10 novembre del 1894 Camillo Pancier dei signori di Zoppola interpellò i suoi contadini sull’esistenza di quella strada:

“Interpellato il vecchio castaldo di Marzinis, Pellarin Valentino d’anni 70 circa, sui ricordi che avesse d’una vecchia strada, asserì che la via Levada era una via romana e che passava vicino alla Chiesa di S. Gerolamo in Marzinis; soggiunse che suo padre lavorò nel sopprimeme un pezzetto della braida del Sinich e che il terreno era compatto e duro, così che il piccone stentava a smuovere quel terrazzo che veniva su a pezzi.
Abbiamo interrogato altri uomini di Marzinis, ma nulla di notevole venne asserito circa la strada romana; avvertirono invece che in parecchie località dello stabile si rinvengono laterizi pagani, specialmente lungo il lato di levante dello stabile”.

Da Le ricerche della Postumia (1893-1896) di Camillo Panciera di Zoppola, Tesis, 2004

 

Comune di Zoppola

La strada Postumia e i resti della centuriazione

Il sistema della centuriazione romana si adattava all’ambiente delle risorgive nonostante la maglia infrastrutturale fosse molto geometrica. La centuriazione era la pratica romana di appoderare il territorio agricolo sviluppando ampi lotti quadrati per insediare i coloni. Nel comune di Zoppola gran parte delle strade conservano ancora l’allineamento della centuriazione romana orientata come la strada Postumia. Dobbiamo credere però che nell’organizzare le maglie geometriche della griglia stradale non si pervenne a una complessiva rinalvezione dei corsi d’acqua di risorgiva. Molto probabilmente una porzione di naturalità si mantenne nelle maglie del disegno romano anche dopo l’impresa di disboscamento e la messa a coltura di un territorio che fino a quel momento aveva avuto pochi segni antropici. La conservazione del rettifilo della Postumia e quello del reticolo agricolo qui si sono conservati perché l’azione dell’acqua fu meno invasiva e mano a mano che le foreste altomedievali venivano abbattute per lasciare spazio a nuovi villaggi i segni delle infrastrutture romane venivano riutilizzati nell’organizzare i nuovi abitati e la campagna.


Il mulino Brussa di Castions

Il 6 ottobre 1103 il più antico documento che ricorda il villaggio di Castions registra il passaggio delle proprietà di Ubaldo e Giovanni del defunto Azone di legge longobarda alla famiglia di Zoppola. Il complesso delle proprietà è consistente e vengono citate case, terre coltivate, e anche il mulino: “casis et omnibus rebus quod est domui coltile nostre vel quicquid habemus et tenemus iuris nostri ad nostram proprietatem in loco et fundo Casteloni vel in eius pertinenciis et territoriis ipsis suprascriptis rebus id sunt tam casis quam molendinum unum cum suis coherentiis cum sediminibus seu terris aratoriis vignis vineis campis pratis pascuis silvis salectis sacionibus rivis ac paludibus piscacionibus venacionibus herbaticum hescaticum”,
Quasi di sicuro il molino era Brussa posto lungo il corso d’acqua abbastanza vicino alla struttura fortificata che ha caratterizzato il toponimo del villaggio e che corrisponde con l’area rialzata dell’attuale chiesa.
A differenza degli insediamenti della bassa o di quelli posti lungo il Tagliamento o il Meduna, qui non c’era la necessità di costruire rogge di alimentazione che garantissero portate costanti anche in occasioni di piene; bastava costruire una traversa che indirizzasse il filone dell’acqua verso la pala. Nel caso del mulino Brussa a Castions lungo il Rio Castellana le portate d’acqua erano sostanzialmente costanti e l’ipotesi peggiore è che fossero troppo scarse per alimentare l’attività molitoria. Il mulino Brussa conserva molto bene il carattere storico nel rapporto tra l’edificio protoindustriale e il fiume che lo alimenta, ma alcuni interventi novecenteschi hanno modificato in modo radicale la residenza del mugnaio.


Resti della centuriazione

Sui territori pianeggianti di Zoppola e San Lorenzo si collocavano gli insediamenti di età romana. Per lo più case agricole di poco valore, ma successivamente si formeranno delle vere e proprie ville con l’affermarsi del latifondo. Il reticolo ortogonale è ancora riconoscibile mentre l’archeologia risulta essere invisibile. E’ invece osservabile in qualche tratto della viabilità quello che resta delle strade di centuriazione e questo permette di coglierne la dimensione archeologica e anche la struttura del manufatto segnato da fossi agli estremi. La stazione di narrazione in questo caso è posta su un brano di antica strada che conserva la larghezza delle strade romane minori. In altri casi e brani della stessa strada le proprietà private hanno eroso lo spazio pubblico fino a ridurre la larghezza dell’infrastruttura ma qui, nonostante le modifiche dovute ai diversi regimi agrari che si sono succeduti, la larghezza del manufatto è quella originaria.
Qui in carattere rettilineo della viabilità orientata sulla Postumia con andamento parallelo o ortogonale è più che mai evidente.
Possiamo credere che l’insediamento non sia molto cambiato se non per la scomparsa delle case isolate dei coloni romani. La loro presenza è ben documentata in quest’area perché ancora oggi durante le fasi delle arature emergono i resti dei materiali da costruzione di case e annessi collassati moltissimi anni fa. Il disegno dei campi si è salvato perché riscoperto e reinterpretato durante la fase di costruzione dei villaggi come Castions e San Lorenzo, con abitazioni che si addensavano nei pressi delle prime sorgenti.


La chiesa di San Michele a Ovoledo

La costruzione risale alla seconda metà del XV sec. Di questa probabilmente rimane solo la parte presbiteriale, che all’esterno presenta lesene in mattoni, raccordate da archi a tutto sesto, e un motivo decorativo con mattoncini affrescati nel sottolinda.
Tracce di affresco con un San Cristoforo con Bambino rimangono sul lato destro.
Alcuni resti di affresco documentano una prima attività pittorica riconducibile alla metà del ‘400. La sola immagine ancora ben riconoscibile è quella di un santo vescovo in atto di benedire su trono ornato da due animali simili a leopardi, ai piedi del santo c’è un orante con stampella.
L’aula ha subito un importante ristrutturazione nel XVII sec. Il portale d’ingresso con motivo decorativo a rosette è in pietra ed è databile al XVI sec.
La parte meglio conservata è quella del presbiterio decorata con gli affreschi del 1567 eseguiti da Girolamo Del Zocco tra i costoloni dipinti a finto marmo decorati con nastri e frutta. Sono raffigurati i quattro Evangelisti accompagnati ciascuno da due angeli musicanti e dal loro simbolo distintivo.
Sono molto originali le decorazioni parietali a candelabre della seconda metà del ‘500 e la pala della prima metà del settecento raffigurante la Madonna del Rosario con San Sebastiano, San Michele e San Rocco.
Parte degli arredi sono stati trasferiti nella nuova chiesa compresa un abella acquasantiera, la tela ottocentesca di San Giuseppe e un trittico in cornice lignea neorinascimentale che incornicia una Madonna con bambino tra San Pietro e San Paolo.


Il mulino e villa Panciera a Murlis

Murlis era un villaggio rivierasco della sinistra Meduna citato nel 1186 come “curtem” e nel 1192 come “villa”
Nel 1325, il Vescovo di Concordia Artico di Castello da Cordovado diede investitura a Vitale Girardo di Ovoleto di quaranta campi e di un mulino presso Murlis posto sull’acqua detta di Selva; e questo mulino, nonostante il degrado, esiste ancora ed ha funzionante fino al 1962 con lo stesso procedimento che si usava mille anni fa. Oggi l’ambiente è selvatico e l’edificio è quasi una rovina romantica posta in riva a un’acqua ancora delimitata da piantagioni di arbusti tenuti a ceppaia.
A Murlis, infine, si trova Villa Panciera voluta da Giulio dei signori di Zoppola, un fine intellettuale che con questa abitazione voleva rifarsi ai temi delle ville venete.
Dell’imponente progetto originario (fine Settecento) è stata realizzata solo la barchessa sinistra, al termine della quale sorge la chiesa a pianta centrale di Santa Lucia, che possiede un altare settecentesco con vaporosi Angeli del XVII secolo di Tommaso Ruer e di Michele Fabris. Molto interessante anche la settecentesca pala di Santa Lucia che rimane sospesa sopra l’altare e che probabilmente proviene come l’altare da acquisti fatti da Giulio Panciera a Venezia.
Nell’impianto del progetto si è voluta intravvedere la mano di Particolare è l’inserimento disassato della chiesa nella manica della barchessa. L’aula circolare fa da testa in stile neoclassico all’imponente barchessa che lascia intuire la qualità dell’anonimo progettista. La chiesa doveva servire non solo i signori di Zoppola, ma anche il paese con un atteggiamento evidentemente populista. Sul lato sinistro un portico con colonne ioniche percorre l’intera lunghezza dell’ala costruita.


I guadi di Murlis

A Murlis i guadi erano sostanzialmente due, quello alto e quello basso, ed erano utilizzati entrambi a seconda della quantità delle acque. Quello del Venchiaruzzo era attraversato dalla strada postale che collegava Cordenons con Valvasone.
Il rapporto tra il villaggio è l’acqua alpina fu sempre difficile a causa della pendenza e della capacità erosiva del Meduna che tendeva ad esondare. Per impedire che l’acqua e le ghiaie entrassero nelle praterie più basse dell’alveo la popolazione coltivava un bosco di salici (venchiar in friulano) chiamato anche pomposamente il bosco di Murlis. Questa difesa passiva non era evidentemente sufficiente se alla fine dell’800 si dovette costruire un importante argine che però non sempre riusciva a resistere alle piene.
Nel marzo del 1882 la piena del Meduna mise in grande difficoltà la nuova arginatura: “produsse grande corrosione nel nuovo argine di Murlis, in comune di Zoppola, minacciando anche il caseggiato di Murlis”. A novembre la situazione fu ancora più grave con danni che interessarono un territorio molto più ampio: “mentre la prima inondazione si limitò alla frazione di Murlis, la seconda invase anche la frazione di AìOvoledo, Cusano, Castions e minacciò la stessa frazione di Zoppola. L’anno dopo si posero mano ai primi restauri di quella che veniva pomposamente chiamata la “diga di Murlis”.
Lentamente le protezioni arginali furono ripristinate e consolidate nell’argine attuale.
Ad oggi il guado superiore è ancora attivo e oggetto di manutenzioni, mentre quello inferiore può essere attraversato solo in alcune stagioni in un ambiente suggestivo e naturale, continuamente trasformato dalla forza delle acque.


Pasiano di Pordenone

La chiesa di Santa Maria degli Angeli

Visinale era un nodo importante di traffico per chi voleva raggiungere con il traghetto la città di Prata. La costruzione della chiesa di Santa Maria degli Angeli consolidò il successo insediativo già nel XIV sec. L’edificio fu rimaneggiato più volte. Per certo fu restaurata e ampliata tra il 1628 e il1674. Un altro ampliamento fu realizzato tra il 1868 e il 1894, ma solo nel 1930 la chiesa ebbe l’attuale facciata storicista.
Al suo interno conserva interessanti opere d’arte come lo stendardo cinquecentesco raffigurante la Madonna del Carmelo con in braccio il Bambino.
Nel settecento molti arredi furono rifatti accogliendo anche opere d’arte precedenti o successive, come l’altare marmoreo dedicato al Sacro Cuore o quello della Madonna con la statua lignea novecentesca.
Un altare laterale minore pure settecentesco ospita una bella pala del 1523 di Marcello Fogolino con la Madonna che tiene il bambino sulle sue ginocchia tra San Giovanni e San Paolo.
Il quarto altare laterale ospita una interessante pala seicentesca che al centro della tela mostra la Madonna di Loreto, ai lati della quale sono inginocchiati sulle nubi san Francesco d’Assisi e san Valentino. La pala probabilmente fu donata da un sacerdote che è stato rappresentato in basso sulla destra.
Su una parete si può osservare isolata una terza pala della seconda metà del Settecento attribuita a Pietro Feltrin e che rappresenta la Madonna col Bambino adorati da santa Apollonia in gloria, i santi Girolamo, Rocco e Sebastiano e il martirio di sant’Eurosia.
Per finire merita una particolare attenzione l’altar maggiore eretto tra 1715-1731 da Giovanni Trognon e adornato da due statue di poco successive di Bartolomeo Modolo, quella della Madonna e quella di San Giuseppe.

Villa Cavazza Querini

La villa fu completata nel 1542 dalla famiglia Cavazza, di origine bergamasca ma impegnata in attività diplomatiche a Venezia; i conti Querini la acquistarono da questi nel 1643, dando inizio al processo di trasformazione del complesso che ha condotto allo stato attuale. Una dipendenza oggi in profondo degrado sembra essere di poco successiva alla villa ed ha proporzioni monumentali. Le barchesse laterali, invece, risalgono al XVII sec. mentre l’oratorio al secolo successivo.
La villa si appoggiava alla strada ed era relativamente vicina alla fermata del traghetto fluviale. L’accesso a sud verso la campagna un tempo era amplificato da un viale campestre. L’edificio padronale presenta una pianta rettangolare con larghezza doppia della profondità; lo stretto salone passante centrale dà accesso a quattro vani per ogni lato. L’elemento decorativo principale della facciata è lo scalone monumentale a doppia rampa, aggiunto dai Querini a metà del Seicento, per spostare l’ingresso principale al primo piano.
Probabilmente ai Querini va pure attribuita la costruzione dell’oratorio rivolto verso la strada e dedicato a San Pietro. La chiesetta ha un fronte con due paraste doriche che sostengono un timpano e inquadrano il portale sormontato da una finestra ad arco; all’interno è conservata una statua marmorea di San Pietro con due angeli, della bottega del Marinali.

 

Roncal, il bosco che diventa campagna

La zona di Roncal ricorda nel toponimo l’attività di disboscamento dalle foreste che ancora in età medievale ricoprivano questa campagna. La cosa importante di questo territorio aperto è la costruzione di un ambito di agricoltura poco insediato e segnato da un alternarsi di campi e praterie nelle aree più incise dei grandi terrazzi.
In età medievale gli insediamenti erano posti lungo le vie principali e vicini ai corsi d’acqua. I terrazzi pianeggianti e dotati di terre dure furono colonizzati solo più tardi e soprattutto a partire dalla vendita delle terre comunali alla metà del ‘600. Questo si riflette anche in forme aziendali che non erano più legate al maso medievale e che erano il frutto di grandi investimenti e riordini. A partire dal ‘400 comincia ad affermarsi nel territorio un processo di costruzione di aziende mezzadrili isolate, ma legate per usi civili e religiosi ai villaggi originari. Lungo la strada del Roncal si può percepire ancora oggi il paesaggio di un ambiente di formazione seicentesca prodotto con la cancellazione del bosco e la messa a coltura delle terre seguendo modalità geometriche e moderne.

Villaraccolta

L’insediamento di Villaraccolta dichiara la sua origine medievale nel tipo di appoderamento che ha definito l’alto e piatto terrazzo argilloso. La tecnica era quella di incidere la grande foresta organizzando piccoli villaggi che a volte riuscivano a resistere al tempo e alle crisi ed in altri casi scomparvero come accadde al villaggio di Mantoa in Waldis (bosco), citato nel 1366, che oggi non sappiamo dove fosse.
Rispetto ai campi del Roncal qui si può notare che la dimensione dei lotti è più piccola e c’è un rapporto forte con la strada matrice. Quasi spopolata nell’800 nel censimento del 1961 contava dodici famiglie per un totale di 53 abitanti che si ridussero con la crisi dell’agricoltura a poco più di una ventina di unità. Oggi la frazione è cresciuta lungo la strada che posta sul vertice del basso dosso argilloso aveva disegnato la prima colonizzazione ai danni della foresta. Negli ultimi anni in queste aree si stanno espandendo nuovamente i vitigni.

Azzano Decimo

Villacriccola e i prati umidi del Sile

Villa Cricola, come Villa Raccolta, era il risultato di un tentativo di colonizzazione e nel caso specifico la responsabilità dovrebbe andare ai signori di Panigai, una famiglia castellana del Friuli, che vanta a suo capostipite un D. Artico de panialeis ricordato nel 1160. Il documento, però, al quale la data stessa sembra riferirsi, non è pervenuto sino a noi. Un atto autentico, invece, ci parla del figlio di lui, Folcomaro,che nel 1218 era gastaldo del Patriarca d’Aquileia in Cinto, e nel 1219 veniva dallo stesso investito in legale feudo di terre in Villa Cricola e in Vado. E’ probabile che Vado (da guado) fosse stato fondato nella zona dell’attuale chiesetta di Santa Rosalia, ma solo Villacriccola è sopravvissuta nel tempo e nel toponimo. Probabilmente l’atto era una riconferma della proprietà e in qualche modo certificava l’interesse economico dei signori di Panigai per la messa a coltura delle terre più alte del grande bacino del Sile. Paesaggisticamente qui le depressioni cominciano ad avere un peso più significativo e il disegno dei campi è tutto centrato sull’interpretazione delle pendenze.
Il percorso rurale finisce sul profondo terrazzo che ad Azzanello entra nelle basse paludi del Sile, con la dimensione sproporzionata rispetto al fiume di risorgiva. Dimensione che è il frutto dell’erosione prodotta subito dopo l’ultima glaciazione da un ramo del Tagliamento poi scomparso. La grande valle depressa tra Panigai, Villacriccola e Azzanello si trova in difficoltà idrauliche ogni volta che la Livenza di alza per una piena e in questa ampia area un tempo c’erano solo prati pubblici che nell’800 furono ceduti alle famiglie residenti nelle borgate di Mure, Barco e Azzanello.

Pasiano di Pordenone

La chiesa di Azzanello

La vecchia chiesa di Azzanello è collocata un poco distante dal paese, proprio sul bordo della bassa valle del paleoalveo del Tagliamento che a ogni piena importante si trasforma in un grande lago. Azzanello è un nome di origine medievale, diminutivo di Azzano (che significa “terreni di Accius”). Il toponimo compare per la prima volta in un documento del 1182 tra i villaggi che appartenevano all’Abbazia di Sesto; a partire dagli inizi del XIII secolo, cominciò ad essere legato al castello patriarcale di Meduna, al quale rimase unito fino alla fine del Settecento.
L’attuale chiesa, è testimoniata fra il XV e il XVI secolo ma non è da escludere che sia più vecchia. Invece le condizioni attuali sono profondamente influenzate dagli esiti delle ristrutturazioni settecentesche e ottocentesche. Comunque è un edificio di grande interesse sia per il contesto paesaggistico che per le opere conservate all’interno. Oggi come un tempo la chiesetta è circondata dal cimitero ed è un caso davvero raro. Sulla controfacciata dietro la cantoria è stato recentemente rinvenuto un pregevole affresco del ‘500 che testimonia una più antica riforma del tempio. Tra gli arredi più importanti merita attenzione l’altar maggiore dell’inizio del settecento con paliotto in marmo bianco con specchiature violacee e verdi. Sulla mensa una struttura marmorea regge il tabernacolo in forma di tempietto con pilastri ornati da festoni floreali e volute laterali. Sui piedistalli si trovano le statue di san Zenone e di sant’Antonio da Padova.
Nelle cappelle laterali si possono vedere alcuni altari minori come quello della Madonna del Rosario con forme del primo Ottocento e una pala di un pittore locale che mostra San Domenico che riceve il rosario. L’altro altare minore è dedicato a San Zenone che risana un bambino sorretto dalla madre vestita con un costume popolare della seconda metà dell’800. Nel presbiterio c’è un interessante ciclo di affreschi con una popolare Ultima cena dell’ultimo decennio del XIX secolo. Sul soffitto in un oculo la gloria di San Zenone, mentre gli spicchi della volta accolgono le immagini dei quattro evangelisti.

La valle del Sile

Per cogliere a pieno il carattere della depressione che contiene i meandri del Sile all’interno del paleoalveo di un ramo del Tagliamento è indispensabile incamminarsi verso il ponte in ferro che collega Azzanello con Meduna.
Questa ampia depressione era una sorta di palude che si allagava anche in occasione di piccole piene e per questo nel 1869 l’ing. Giuseppe Rinaldi fu incaricato di predisporre un progetto per aumentare le pendenze del corso d’acqua intervenendo anche nella zona del mulino di Malgher che dal 1074 era attrezzato con un opificio che recuperava le acque del Sile e del Fiume. La costruzione della nuova strada argine per Barco doveva permettere di ridurre la lunghezza del Sile in occasione della sua immissione nel Fiume aumentando anche la pendenza. Questo argine permise di bonificare una importante superficie del vecchio alveo rendendo più facili i collegamenti con Barco e Panigai. I problemi delle piene non furono però risolti e ancora oggi in speciali occasioni tutta l’antica depressione si riempie d’acqua ricordando quella che era la dimensione del Tagliamento in età postglaciale.
Negli ultimi quarant’anni molti dei terreni delle originarie praterie sono stati arati, ma negli ultimi anni sono sempre di più delle porzioni di terra che vengono nuovamente lasciate a prato oppure a pioppeto. Infatti, in occasione delle piene si possono formare delle lame d’acqua anche di due o tre metri che finiscono per danneggiare i seminativi nonostante non ci siano in quest’area fenomeni di erosione.
Qui il percorso si ricollega alle ciclabili regionali del Friuli Venezia Giulia attraversando la palude sulla strada argine per Barco, oppure recupera la ciclabile del Livenza che in Veneto conduce a Caorle e al mare.