Stazioni narrazione 1 Itinerario

Stazioni narrazione 1 Itinerario

Comune di Sacile

 

La valle della Paisa

La Paisa è un piccolo corso d’acqua di risorgiva con una portata relativamente costante durante l’anno. Durante il suo breve tragitto dalle sorgenti della Valonga a Fontanafredda cambia il suo nome in “Saccone”, Acqua di Molino a San Giovanni, e Paisa nel tratto inferiore. Quando il Livenza si alza in occasione di piene anche il piccolo affluente esonda su una superficie molto ampia. Questo carattere idraulico ha nel tempo tenuto lontane le espansioni urbane e quest’area è ancora oggi piuttosto caratterizzata da un ambiente umido e fluviale. Poco prima della confluenza della Paisa nella Livenza le portate costanti del fiume convinsero gli investitori a costruire un opificio idraulico per la produzione della carta, appunto una cartiera che oggi si può riconoscere negli edifici più vecchi dell’area della “Mineraria”. Sacile è una città industriale cresciuta sul fiume ma che si è espansa molto lungo le principali direttrici trasportistiche che seguono le strade di interesse interregionale costruite all’inizio del XIX secolo. La depressione della Paisa, alluvionata di tanto in tanto, è una grande area di agricoltura che si insinua fin quasi in centro alla città ed è attrezzata con una pista ciclabile che segue proprio il corso d’acqua. All’interno di questo ambiente sono tipiche le essenze ripariali della bassa pianura che compongono figurazioni arbustive morfologicamente complesse e variegate da un punto di vista cromatico.


Stampa settecentesca che mostra il processo di produzione della carta in foglio

La Motta del Livenza

Sacile nasce nel XII secolo come un porto sottoposto al principe della Pareia del Friuli, il Patriarca di Aquileia.
Lungo la Livenza, fino al XVI secolo, transitavano merci, ma anche i pellegrini in partenza o in arrivo dall’oriente che venivano ospitati nelle strutture dei cavalieri di San Giovanni presso l’ospedale di San Leonardo (oggi San Giovanni del Tempio). Nel Duecento Sacile fu spesso oggetto di attacchi da parte delle truppe del comune di Treviso e poi dai signori da Camino. Gli attacchi alla città potevano mettere in difficoltà la via del fiume con le barche che scendevano verso Venezia. Il territorio della città sulla riva destra del Livenza arrivava fino alla confluenza del Meschio, mentre la riva sinistra era sottoposta ai signori di Sant’Odorico, i Pelizza. Queste tecniche erano diffuse tanto che sappiamo che sul finire del ‘200 Corrado Pelizza, in conflitto con la città, aveva “munita di spineti e battifredi la sua torre , fece accolta di scherani , i quali istigati dalla di lui moglie Gisla manomisero violentemente i famigliari del Podestà Guglielmino della Torre”. Per controllare meglio il traffico commerciale e la difesa urbana la città costruì una “motta” dominata da una torre in legno. Il tipo edilizio della motta era una costruzione difensiva fatta in terra e legno. Prima veniva costruita una collina artificiale e poi alla sommità si realizzava la torre difesa ai piedi da un sistema di terra e palizzate di legno. Le strutture di difesa di questo tipo venivano ricostruite ogni volta ci fosse un problema militare e potevano essere abbandonate facilmente incendiandole. Erano opere provvisorie di contorno alla città murata.
Per fortuna quello che rimane di questo manufatto si è perfettamente conservato nella sua componente in terra, anche se le strutture lignee ce le possiamo solo immaginare. Il percorso sull’argine permette di arrivare ai resti di quello che rimane della struttura medievale conservata da allora sulla riva della Livenza. Se nel medioevo questa era “l’autostrada” dell’epoca oggi questi luoghi sono remoti e le sponde glabre della Livenza sono diventate dei boschetti di ripa con un carattere assolutamente naturalistico.


La freccia individua la posizione dei resti della torre medievale

L’attacco di una motta in un arazzo francese

Schema di una motta

Tipologie di motte con torre sommitale. Quella del Livenza è del terzo tipo, con locale interrato

La confluenza del meschio con la Livenza

Sacile viene fondata come città portuale realizzando due isole tagliando un doppio meandro. Un’isola, Castelvecchio, diventerà città, in quella superiore saranno collocate le strutture portuali. Lungo la Livenza quindi tra il XII e il XVI si sviluppò un importante traffico fluviale controllato e protetto direttamente dal principe del Friuli. La Livenza da subito sarà una delle principali arterie commerciali del Friuli per merci e uomini diretti da e per il Nord Europa. Il terminale inferiore di questa via acquea era Venezia e il servizio di collegamento veniva garantito con piccole barche a fondo piatto (burchi) che per risalire la corrente dovevano essere tirati da uomini e buoi.
La Livenza in questa zona è molto profonda e ha un colore smeraldo intenso, ma arrivata alla confluenza del Meschio la situazione cambia completamente perché le lingue di ghiaia portate dal torrente cominciano a stendersi nell’alveo creando dei colori molto meno intensi con banchi di ghiaia fino a Brugnera.
Questo processo naturale nel tempo bloccò il traffico delle imbarcazioni diventate tra il medioevo e l’età moderna, più grandi e pesanti. Per secoli Sacile chiese a Venezia di intervenire liberando il letto del fiume dai banchi di ghiaia. Questo progetto fu predisposto da Tommaso Temanza uno dei migliori tecnici della repubblica solo nel 1771, ma non fu mai realizzato. Dal XVI secolo i due porti più a monte dell’asta del Livenza e affluenti saranno Portobuffolè e Pordenone con il traghetto che faceva posta a Rialto a Riva del Vin.
Successivamente la Livenza nel tratto alto sarà solcata solo dalle caratteristiche barche a fondo piatto comandate da una pertica di legno.


 
I burchi del Livenza non dovevano essere molto diversi da questa imbarcazione. La vela veniva usata per attraversare la laguna dove non era possibile essere assistiti dal tiro.

Tipica imbarcazione dei pescatori dell’Altolivenza

L’insediamento degli slavi

Dalla motta medievale il fiume per la prima volta comincia ad avere, su alcuni tratti, la forma degli argini per il contenimento delle piene. Gli argini a monte servono per contenere l’acqua rispetto ai campi, ma a sud le modeste arginature servono per salvaguardare un antico insediamento che ricorda alcune fasi del popolamento medievale con popolazioni slave trasferite qui dal signore del Friuli e di Sacile: il Patriarca di Aquileia. L’abitato si chiama Schiavoi e si rifà appunto, agli schiavi o schiavoni e quindi a immigrati slavi letti dalle popolazioni romanze come diversi per usi e costumi. Del vecchi abitato nulla più rammenta questa storia antica. Schiavoi non ebbe mai una piazza e nemmeno una chiesa e la mancanza di regole compositive è forse uno dei caratteri che lega questa borgata agli insediamenti slavi più vicini. Come si può notare dalle cartografie storiche schiavoi aveva una certa importanza solo per il fatto che qui confluivano tutte le principali strade della destra idrografica per la comodità del guado. A Sud Est del villaggio si notano i Campi Saccon. Il toponimo ricorda il disegno meandrile della Livenza. Questa forma del fiume altre volte è definita “saccil” da cui il nome della città portuale.


1805 Si nota come a sud di Schiavoi ci sia un fitto sistema di strade che poi superavano le zone umide dalla Fossa andando verso Francenigo

Cavolano e la chiesa di San Lorenzo

La chiesa di Cavolano è dedicata a San Lorenzo ed era la chiesa che nel medioevo gestiva un territorio della Diocesi di Ceneda posto tra i corsi quasi paralleli del Meschio e della Fossa. La chiesa più antica era quella di Fossabiuba, ma nel 1199 la cappella minore posta lungo la Livenza ottenne il titolo di pieve. Questo pone anche il problema della centralità assunta dalla via d’acqua che attirò forme insediative diverse, non solo la chiesa, ma anche un piccolo castello che non è mai stato identificato, ma che forse aveva qualcosa a che fare con dei rilievi di terra a monte della chiesa ora distrutti. Cavolano è spesso ricordata come una Gastaldia che quasi sempre veniva ceduta a Sacile, ma non poche volte ci furono problemi con i contendenti Da Camino e verso il 1340 fu persino controllato dai veneziani.
Le dimensioni dei borghi che lentamente erano stati attratti dall’espansione politica della gastaldia di Cavolano sono ben definiti in un documento del 1341 che ricorda come “Regula Cavolani, que appellatur Sclavonum, Fossalata, Banaronum, Bibanum, Plancanum, Visagum, Baverum, Godega, S. Joannes de ultra Liquentiam”. Quindi Cavolano e Schiavoi erano la stessa cosa e il territorio occupava anche l’area di San giovanni posta oltre la Livenza e quindi abbracciava la via fluviale.
Della chiesa originaria e del castello di Cavolano non rimane più nulla. La nuova chiesa è del tutto neoclassica e fu fondata nel 1856 ma rimase incompleta per molti anni come ricorda questa nota scritta in occasione della consacrazione nell’agosto del 1895: “Nel 1856 si gettò la prima pietra del nuovo tempio. Il disegno arditissimo era di Stefano Marchi, imprenditore e architetto. Senonché il lavoro, iniziato e continuato a brevi periodi, si fermò ad un tratto e parve non dovesse riprendersi mai più”. Invece la chiesa è oggi uno dei migliori esempi neoclassici in Friuli Occidentale.


1805 La mappa mostra come a Cavolano ci fosse uno storico traghetto sulla Livenza che metteva in comunicazione i territori della riva destra con quelli della sinistra.
 

Cavolano e la chiesa di San Giovanni

La chiesa di San Giovanni si trova sulla sinistra idrografica del fiume e ha caratterizzato il nome della frazione di Sacile. In realtà l’insediamento sparso che si appoggiava a questo fiume era chiamato Francenigo di là e ancora oggi la piccola borgata friulana fa riferimento, per le funzioni religiose e cimiteriale, alla chiesa che sta in Veneto. L’edificio alquanto modesto si ergeva su un terrazzo prospiciente il fiume e si collegava a Francenigo grazie a un traghetto. Il parroco di Francenigo faceva officiare la messa da un cappellano, e anche per questo l’edificio rimase una piccola cappella priva di speciali apparati come il fonte battesimale e il cimitero.
L’edificio, dedicato al Battista, è del XVI secolo ed è stato profondamente ristrutturato nel 1810 e nel 1976-84. Nel 1990 Giancarlo Magri restaurò gli affreschi conservati all’interno della chiesetta. Seppure deteriorati dal tempo e dall’umidità di risalita nell’arco trionfale si può vedere un Dio Padre Eterno, con ai lati l’Angelo e la Beata Vergine, i Santi Pietro e Paolo e Il Battesimo di Cristo con figura di devota. L’affresco è datato 1593 e viene attribuito a un pittore veneto cretese. L’affresco che raffigura la Vergine con il Bambino e i Santi Giacomo minore e Giovanni Battista è di Girolamo Stefanelli di Porcia (notizie dal 1524 al 1566) e lascerebbe intuire una ristrutturazione anche simbolica di poco successiva a quella della pieve di Francenigo che si intravvede oltre il fiume e che fu voluta dal pievano Ludovico di Porcia.


 

La “smorta” del Livenza

I collegamenti tra San Giovanni di Livenza e Francenigo, sede della chiesa pievana e del cimitero, avvenivano grazie a uno storico traghetto che permetteva di attraversare il fiume.
Nella seconda metà dell’800 la rettifica del meandro posto tra Francenigo e San Giovanni ha provocato l’allontanamento della Livenza e la costruzione di un residuo fluviale, “la smorta” che oggi è uno spazio di naturalità di grande interesse. Qui infatti le acque serrate dalla costruzione del nuovo alveo sono stagnanti e costruiscono ambienti di palude profonda che sono abbastanza rari in questi territori. A monte, vicino a Cavolano c’è un secondo esemplare di questi ambienti costruiti dall’uomo e poi interpretati dalla natura in termini di biodiversità. Entrambi sono organizzati come delle piccole riserve naturali di interesse comunale. Alle macchie boschive lungo l’acqua si alternano spazi di recente rimboschimento e praterie umide di grande valore ambientale e naturalistico.


1891 Mappa dell’Istituto Geografico Militare che per la prima volta registra il “drezzagno”

Chiesa di San Giacomo

Nella chiesa posta nel recinto della città portuale la dedica a S. Nicola ci rimanda chiaramente alla devozione dei portolani, così come per il uomo di Sacile. Invece fuori le mura stava la parrocchiale più antica, probabilmente di origine bassomedievale e dedicata a San Giacomo apostolo, forse perché questo porto era comunque un terminale importante per i pellegrini in viaggio.
Fino al 1840 i battesimi, matrimoni e funerali si tenevano nella chiesetta che guardava la Livenza, mentre in quella data i valori di parrocchialità passarono alla chiesa di San Nicolò che assunse anche l’intitolazione a Giacomo.
Oggi la chiesa si trova nel cimitero del paese e non è facile visitarla all’interno, nonostante tutto merita una sosta per osservare sopra una porta laterale contornata in fine bugnato un affresco quasi sbiadito di San Giacomo all’interno di una preziosissima cornice liberty in stucco.
All’interno è stato recentemente scoperto un affresco della fine del ‘400 raffigurante San Giacomo e attribuito ad Andrea Bellunello.


 

La città e il porto di Brugnera

Sappiamo che alla fine del XII secolo dove oggi c’è Brugnera, solo sulla sponda destra, c’era un piccolo castelletto dei signori di Porcia. Le distruzioni durante la guerra tra Patriarca e trevisani (1220) comportarono la costruzione di una struttura più complessa sulla sinistra del Livenza, con un porto fluviale e un borgo urbano con artigiani e commercianti insediati. La piccola piazzetta del borgo era caratterizzata da due edifici, la cappella dedicata a San Nicolò, ricostruita nelle forme della chiesa attuale alla fine dell’800 e la loggia che oggi non c’è più.
Presso il porto, sul retro dell’attuale chiesa, fu costituita anche una camera del sale, componente rilevante dell’alimentazione e dei commerci dell’epoca. Nel 1420 Brugnera entrò a far parte della Repubblica di Venezia. Da qui in poi venne meno la necessità del castello ai fini di difesa e anche il presidio munito all’interno del borgo nel XVI secolo fu trasformato in un palazzo alla veneziana.
La visita alla città permette di cogliere alcuni brani dell’originaria via centrale con case/botteghe porticate di tradizione bassomedievale. Anche la chiesa merita una visita per cogliere l’affresco di Tutti i santi attribuito a Francesco da Milano e la pala d’altare raffigurante la Madonna con Bambino e i santi Filippo, Giacomo e Cristoforo (1524) proveniente dall’altare maggiore della chiesa di San Giacomo fuori le mura e dipinta da Marcello Fogolino.


 
 
1524 La pala d’altare di Marcello Fogolino
Dettaglio dell’affresco di Francesco da Milano che ornava l’originaria cappella di San Nicolò

Villa Varda

Il toponimo Varda o Guarda ricorda l’occupazione longobarda della zona con la costruzione di un punto di osservazione militare funzionale a un contesto territoriale che non conosciamo. Nel ‘400 la proprietà di “Guarda” era in mano ai signori di Porcia che nel 1514 cedettero i luoghi alla famiglia dei Collalto.
Il toponimo non scomparve e nell’ansa del fiume Livenza nel cinquecento i veneziani Mazzoleni costruirono un’azienda agricola che aveva al centro una residenza di campagna che grosso modo corrisponde al corpo centrale dell’attuale villa di impianto tripartito.
Nel 1691 alla morte dell’ultimo erede Fabio Mazzoleni la proprietà passò per eredità alla famiglia veneziana Negri. Nel 1736 la consistenza della vilal era sintetizzata nei termini seguenti: “Casa dominical con campi due in circa et brolo sempre per uso della mia casa”. Estinti anche i Negri la villa pervenne nel 1776 agli Amalteo di Oderzo. Il complesso fu poi venduto nel 1853 a Maria Giacomuzzi Caine e nel 1867 fu acquistato all’asta da Carlo Marco Morpurgo de Nilma che era un imprenditore triestino che investiva anche molto del suo guadagno nel territorio del Regno d’Italia. E’ attribuibile a lui la ristrutturazione dell’azienda agricola e della residenza nelle forme attuali. L’azienda contava su circa 300 ettari e un consistente numero di edifici e residenze agricole. Gli apparati decorativi dei saloni interni ricordano i rapporti economici che il borghese triestino tesseva con l’Oriente.
Vero è che uno degli elementi più interessanti del complesso monumentale oggi in capo al Comune di Brugnera è il parco romantico che accorpò alla villa alcune praterie umide che producevano foraggio per le stalle di famiglia. Nel parco sono presenti interessanti architetture da giardino come la serra, la chiesetta, opera dell’architetto Domenico Rupolo decorata da Tiburzio Donadon (1926), la torre in stile medievale (progetto di Alberto Riccoboni, 1932), la vera da pozzo, l’attracco sul Livenza. L’ambito è oggi uno dei parchi pubblici più frequentati del Friuli Occidentale.


 
1805 La consistenza delle proprietà di Guarda nel momento del passaggio agli Amalteo di Oderzo.
 

La chiesa si San Cassiano

Pieve matrice di Ghirano. Campomolino, S. Maria di Setttimo e Villanova di Prata la chiesa di San Cassiano sul Livenza era piuttosto modesta se dobbiamo considerare la facciata sud dell’attuale costruzione. Infatti la misura e le decorazioni sotto linda in archetti di cotto testimoniano una modalità costruttiva del ‘500. Eppure la prima notizia sull’edificio è del 1224 . Della vecchia chiesa consacrata nel 1512 o nel 1514 a parte quel muro rimane davvero poco.
La chiesa era posta lungo l’asse Ovest-Est e guardava la Livenza che in quell’ambito era caratterizzata da un profondo meandro. La mappa topografica del 1805 mostra il meandro caratterizzato da praterie che di tanto in tanto venivano allagate, mentre la chiesa era affiancata da una grande costruzione con una corte. Sul finire del XIX secolo anche il meandro di San Cassiano fu tagliato in vista di un progetto di recupero della via d’acqua fino a Sacile.
A partire dal 1933 la chiesa pievana venne ampliata e riformata su progetto dell’arch. Domenico Rupolo che la orientò al contrario, predisponendo la facciata verso il paese. Oggi alcune opere storiche sono ricollocate nel nuovo edificio neogotico: l’altare maggiore del 1512 decorato con la pala di S. Cassiano con San Pietro e San Lorenzo, dipinta da Sebastiano Valvassori nel 1773, il battistero in pietra del 1525, la pila d’acqua santa e il campanile. Sopra la porta della sagrestia, un malandato affresco con Cristo morto sorretto da Giuseppe d’Arimatea, è ciò che resta di una più ampia raffigurazione, probabile opera di Francesco da Milano e riconducibile al primo decennio del Cinquecento.


 
 
 
1805 La mappa segna con un verde inciso le zone tenute a prato perché facili alle alluvioni

I meandri e l’attiraglia del Livenza

Lungo il fiume si attestavano anche case isolate che forse non avevano un significato solo relativo all’insediamento agricolo. Chi stava lungo il fiume collaborava alle fasi delle tiraglie, quindi prestava l’attività sua e dei suoi animali per tirare le imbarcazioni controcorrente. E’ probabile che il piccolo insediamento di Talmassons avesse questo significato collocandosi su un alto dosso contro il quale va ad ancorarsi l’argine.
Era questa la navigazione ad “attiraglio” che usufruiva di “tiranti” specializzati con cavalli o buoi. Lungo i fiumi navigabili le rive dovevano esse glabre e il bordo era una sorta di strada detta “attiraglia” o “alzaia”.
Poco a monte dell’abitato si scorgono due importanti meandri che sono una delle tipiche forme del fiume. Gli animali che tiravano le imbarcazioni dovevano compiere importanti giri dei “sacconi” e qui è possibile leggere questa speciale forma fluviale tipica dei tratti in cui c’era poca pendenza per l’acqua. Il doppio meandro di chiama anche Saccil, sempre da sacco o saccon ed è alla base della formazione della città di Sacile segnata dal doppio taglio di due meandri come pure della città di Prata. Anche quella struttura medievale fu fondata il un ambiente simile a quello posto a monte di Talmasson costruendo due piccoli tratti artificiali e producendo in questo modo due isole da attrezzare con strutture abitative e attrezzature portuali.


Foto aerea dei meandri posti poco a monte di Talmasson
 

I casoni del Livenza e la valle del Maron

La valle del Maron o Marone, oppure Taglio, è un’ampia zona depressa un tempo coltivata a prato, mentre oggi è per lo più arata e in qualche caso persino vitata. Queste profonde incisioni del terrazzo argilloso sono uno degli elementi caratteristici di questi ambienti ai quali si appoggiavano insediamenti contadini particolarmente poveri. In prossimità del ponte di via Frascada c’è la possibilità di vedere uno degli ultimi esempi conservati di casone che nella zona del Livenza erano molto diffusi. Si trattava di residenze agricole molto povere costituite di norma da due stanze al piano terra, camera e cucina, che si affiancavano a una modesta stalla e erano sormontate da un lungo fienile posto sotto un tetto molto spiovente coperto di paglia. Lungo il percorso se ne può osservare uno ancora conservato come seconda casa con la copertura degli anni ‘50 del Novecento rifatta in tegole marsigliesi. Ai primi del secolo scorso era stato ampliato per realizzare altre due stanze su due piani dotate di camino. Infatti in origine questi edifici costruiti per lo più in legno e paglia erano privi di canna fumaria e il focolare era a terra. Non era inusuale che le pareti divisorie fossero fatte con rami intrecciati e intonacati in argilla. In modo non diverso in alcuni casi i casoni erano costruiti al piano terra con mattoni in argilla cruda. In ogni caso si trattava di tecniche costruttive povere e facilmente deperibili se private della manutenzione dovuta.


Un casone in rovina si rintraccia ancora a pochi chilometri a valle in comune di Mansuè in una situazione particolare come ampliamento a una residenza seicentesca
 
 

Prata di Pordenone

Il prato degli angeli

A valle della conflenza tra il Meduna, fiume alpino, e la Livenza, fiume di risorgiva, c’è una ampissima area depressa che da sempre si allaga in occasione di piene. Originariamente era un grande bosco pubblico come vorrebbe il toponimo Pra dei Gai sulla destra della Livenza, che ricorda il termine longobardo di Gahagi che significa appunto bosco.
Le aree poste lungo il Livenza a Ghirano erano chiamate invece Pra degli Angeli e oggi come in antico si allagavano in occasione delle piene del fiume Meduna. Oggi però la costruzione all’inizio del ‘900 dell’argine ha ridotto le aree di naturale espansione delle piene. L’ambiente tradizionale a differenza di oggi era esclusivamente prativo ed erano possibili solo alcune pratiche di coltivazione di alberi. Non è un caso, quindi, che nel Pra degli Angeli si trovi un enorme salice bianco che è stato sommerso per moltissime volte dalle acque. Camminare sull’argine permette di godere di un paesaggio unico privo di edifici in considerazione della sua speciale caratteristica idraulica. Tutto il territorio di Prata è circondato da argini particolarmente alti che testimoniano l’importanza delle piene e persino la strada di collegamento tra Ghirano e Portobuffolè la si è dovuta costruire sul vertice della struttura arginale.


 
1805 Con il verde si identificano ne grandi superfici erbose del Pra dei Gai e del Pra degli Angeli

Il traghetto di Tremeacque e il doppio ponte

Alcuni studiosi vogliono che Il nome di questa località derivi dal latino “inter ambas aquas” cioè “fra entrambe le acque”. Questo luogo era anche il punto di incontro dei due traghetti del Livenza e del Noncello che avevano diversi terminali in terraferma, Portobuffolé il primo e Pordenone il secondo, ma che erano ospitati sulla stessa riva del Vin a Rialto. Il traghetto di Tremeacque invece era di passo e per secoli fu gestito dalla famiglia Dall’Ongaro che qui aveva la sua residenza e anche uno squero per la riparazione dei burchi. Nel 1805 quell’attraversamento veniva descritto così: Un passo a Tremeaque e Meduna, essi si compongono di barche a fondo piatto per carri, sui quali può essere trasportato un carro grande a doppio tiro; poi su una chiatta per pedoni che contiene 12 uomini. Entrambi questi passi appartengono alla riva sinistra”.
Sul lato di Mansuè, presso un modesto fabbricato, nacque Francesco Dall’Ongaro, il famoso scrittore risorgimentale che descrisse nei sui scritti la terra natale e il paesaggio di Tremeacque in un articolo del 1840 pubblicato nella “Favilla” la rivista triestina che all’epoca dirigeva.
Lontano dalle rive della Livenza con nostalgia confessava che “Mi chiamava potentemente il mio Friuli, questa terra ove nacquero i miei maggiori, quest’aria ch’io respirai fanciullo, e mi riempie d’una vita novella sempre ch’io la respiro. […] io nacqui sulle rive all’azzurra Meduna. Perdonatemi, o diletti parenti: ma se v’è luogo in cui la vostra lontananza mi riesca men grave, egli è qui dove bacio ancora i pioppi ch’io vidi bambino, la terra che prima sostennemi, la chiesa dove io fui battezzato, quei primi volti a cui s’accostumarono gli occhi miei. Queste soavi memorie, e l’animo ospitale, e l’aria franca e non adulatrice che distingue fra tutti l’abitatore di questa contrada, tutto ciò mi lascia prevedere, e quasi sospirare un momento, in cui potrò come il fiume che rientra nel mare da cui traeva l’origine, riposare anch’io le stanche membra, dove un giorno ne fui vestito”.
Il traghetto fu soppresso nel 1917 quando l’esercito costruì due ponti per garantire il sistema stradale della retroguardia. Pochi mesi dopo, durante la ritirata i due punti furono distrutti e poi ricostruiti nel 1922.


Ritratto di Francesco Dall’Ongaro (19 giugno 1808-10 gennaio 1873)
 
 

Il castello di Ghirano

Il 5 agosto del 908 L’imperatore Berengario I concedeva al Vescovo di Ceneda il porto di Settimo sulla Livenza, quindi l’attuale Portobuffolè. Oltre a quella struttura gli lasciava anche i boschi di Gaio e di “Girano” con una “corte”:
“unum portum in Liquentia quod Septimum dicitur et sicut predictum flumen oritur et defluit usque in mare de ambabus partibus ripe per quindecim pedes palisfìcturam, ripaticum, toloneum, mercatum iuris regni nostri seu quicquid ad eundem portum vel in eisdem fìnibus pertinere dignoscitur, nec non et silvam de Gaio et Girano cum corte”. Questa corte poteva essere un luogo fortificato a presidio del corso del Meduna. Anche il toponimo Ghirano sembra derivare da “girone” e quindi da una struttura fortificata.
In età basso medievale sappiamo che a Ghirano c’era un paese di contadini sottoposti ai signori di Prata.
Nel 1307 a Ghirano comparivano toponimi relativi ai meandri “in loco dićto Sacono, cui a mane & monte fiumen Medune labitur”, oppure un doppio meandro “in loco dicto in Sacilo”, oppure quello di Paludo “meridie flumen liquentie labitur”. Sul lato del Meduna il documento ricordava anche una terra in loco dićto Castello, cui a mane terra Nicolai de Prata”. Solo recentemente si è capito che il castello stava su una grande e alta ansa del Meduna sull’altro lato del monastero di San Martino. Non a caso nel testamento di Guecello di Prata del 1262 il castello di Ghirano risultava essere della famiglia e il testatore accordava delle donazioni anche al monastero che proprio la sua famiglia probabilmente aveva contribuito a insediare in quel punto. Anche il castello scomparve del tutto per la guerra del 1419 e il fatto che il sito sia stato usato per un certo periodo come cava per le fornaci di Rivarotta non lascia molte speranze di rintracciare in loco elementi di archeologia.
Oggi la forma del fossato originario è ancora bel riconoscibile nelle foto aeree.


Foto aerea dell’ansa caratterizzata dal toponimo castello nel catasto napoleonico (1807)
1805 Il castello era relativamente distante dal villaggio e si collocava sulla sponda destra del Meduna di fronte al monastero camaldolese di San Martino

La chiesa di San Pietro e il suo trasferimento

Scendendo dal’argine a poche centinaia di metri dallo stesso, si può visitare la chiesa di San Pietro e San Paolo che probabilmente ha derivato il suo nome da un oratorio omonimo che era posto in riva al Meduna dove ora c’è il cimitero di Ghirano.
La mappa del 1829 Mostra chiaramente la strada che da Rivarotta scendeva al fiume e attraversava con un traghetto in occasione del borgo di Ghirano.
L’attuale chiesa parrocchiale di Ghirano era un altarino minore dedicato a San Francesco d’Assisi e la cui costruzione probabilmente risaliva al XV° secolo. L’originaria chiesa parrocchiale di Ghirano intitolata ai Santi Pietro e Paolo fu utilizzata fino al 1419, la data della grande battaglia tra Venezia e i signori di Prata dalla quale anche la chiesa sul fiume ne uscì disastrata, ma il cimitero rimase attorno a quelle rovine.
La chiesa di Ghirano fu ricostruita e consacrata il 20 maggio 1759, dal Vescovo mons. Lorenzo Da Ponte e diventò a tutti gli effetti chiesa parrocchiale nel 1770. Un nuovo progetto dell’architetto Antonio Maggion ridefinì l’architettura e il prospetto della chiesa, ma i lavori iniziati nel 1797 finirono solo l’11 giugno del 1846. Il campanile in stile storicista è dell’ing. Pietro dall’Ongaro (1947-51). All’interno erano conservate due importanti pale d’altare, una di Paris Bordone e una di Giovanni Girolamo Savoldo, ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Oggi all’interno si possono vedere pochi arredi storici e gli altari settecenteschi restaurati nel 2017.

 
 
 

La città scomparsa

Nei territori posti sulla destra del Meduna e acquisiti dai di Prata dalla famiglia di Caporiacco nel 1190 sorse agli inizi del XIII secolo una città. Come a Sacile un secolo prima, qui i signori di Prata occuparono la zona di un doppio meandro (Sacilotto) compiendo due tagli che costruirono due isole. La prima dedicata alle strutture portuali, la seconda alle abitazioni. Nel 1262 viene citata la “clausura Sacilotti post circam versus Medunam”.
Sappiamo che c’era uno spazio deputato al mercato: “quod si quis in foro vel mercatis iuxta Prata rixas fecerit…”.
Nessun mercante poteva entrare all’interno della città se non era stato prima autorizzato dai signori o dal podestà: “quod custodes pontium et portarum nullum forensem permittant intrare sine licentia dominorum vel Potestatis (…) salvo si ad custodiam esset aliquis supracustos qui cognosceret ferenses quia tunc possit usque ad numerum quinque permittere intrare”.
La citazione del testamento di Guecello ci fornisce un indizio ulteriore sulla subalternità dell’isola del porto a quella della città. La prima era difesa con una protezione leggera, la “clausura”, mentre la seconda era difesa dalla “circam” un vero e proprio muro difensivo. Le isole erano collegate alla terraferma da ponti che introducevano alle porte che venivano chiuse la sera. Poco alla volta prese piede il termine di “terra” per descrivere una cittadina che dentro le mura aveva strade porticate con case-bottega, officine di artigiani e negozi di commercianti. Seppure venga facile credere che porto e città vivessero una felice congiuntura economica, già all’inizio del XIII secolo molti dati ci fanno ritenere che le strutture edilizie dei quartieri residenziali fossero estremamente semplici e precarie. L’attenzione prestata dagli statuti in relazione all’attività dei marangoni (falegnami) nella costruzione delle case ci conferma il fatto che ancora nel XIV sec. la maggior parte delle stesse era in legno e paglia. Nel 1316 sappiamo che tutta la città fu distrutta da un incendio che aveva avuto origine dall’officina di un fabbro: “in Prata dum aliqui fabri laborarent, ignis accensus est in domo, deinde progressus ad domos circustantes, combuxit totam Pratam”.
Le strette stradine si aprivano poi su una piazza sulla quale si affacciava una chiesa anticipata da una loggia o portico. La piazza era il luogo delle celebrazioni civili e religiose e come in gran parte delle città friulane, non riscontriamo una dualità di piazze legate alle due funzioni.
Che la piazza fosse il luogo dei divertimenti e delle feste ci viene confermato dagli statuti: “nullus audeat de die vel de nocte ludere ut prescribitur in Prata alicubi nisi super platheam Prate”.
La piazza era anche il luogo nel quale si esprimevano, anche fisicamente, gli elementi dell’amministrazione cittadina. Qui il precone gridava i diversi atti pubblici, qui si riunivano il podestà e i diversi funzionari per discutere con i cittadini gli argomenti della pubblica amministrazione. Proprio sotto la loggia della chiesa si trovavano i deputati alla sicurezza notturna della città pronti a dare un eventuale allarme utilizzando le campane della chiesa.
A Prata c’erano almeno quattro chiese, due poste all’esterno della città e due all’interno. Queste ultime erano quella di S. Giacomo e quella di S. Lucia. Della “Ecclesie Sancti lacobi de Prata” citata anche negli statuti sappiamo ben poco, mentre abbiamo più notizie su quella di Santa Lucia, eretta fin dalla fondazione della città sulla “platea Prate”.
Un discorso diverso va fatto per le altre due chiese, quella di Santa Maria dei Battuti e quella dei Cavalieri di San Giovanni. Entrambe erano dotate di un piccolo ospedale posto a servizio della città e dei pellegrini.
Un discorso simile va fatto per l’ospedale giovannita del quale si è conservata la chiesetta. L’ospedale era stato costruito sul ripiano del dosso fluviale delle gere, pochi metri più in alto del livello della città.

L’epilogo: la battaglia finale e la distruzione
Prata fu la prima città che nel 1419 si schierò contro i veneziani che stavano cercando di controllare tutto il Friuli. Il patriarca non fu in grado di affiancare ai di Prata il suo esercito e le truppe imperiali arrivarono solo dopo che tutto il Friuli si era dato alla Serenissima e il principe del Friuli era scappato. Prata si difese da sola con coraggio preparandosi a un attacco portato a termine con le imbarcazioni fluviali. Per questo i signori locali costruirono molte difese passive anche in acqua: “avea sott’acqua in grandissima quantità de pali et avea fato far palade orbe di grandissimi roveri, l’una davanti l’altra, con piastre di ferro di sopra per sfondar navigli che andavanoli addosso a quelle palade; et oltra di queste li avevano fato una cadena de ferro che circondava tutta la terra dalla via del fiume”.
I veneziani decisero di non compiere un attacco diretto che li avrebbe messi in difficoltà, ma di operare un lento assedio in attesa che le condizioni atmosferiche cambiassero. Per cominciare costruirono una macchina su una barca che, sfruttando la stessa forza dell’acqua impressa a una mannaia subacquea, permettesse di liberare lo spazio delle smorte e dei meandri fluviali dai pali appuntiti. Il cronista ricorda che i veneziani “feceno una piata incamitada con un inzegno suzo la prova coverto, el qual andava sotto acqua a modo de una grandissima manera et giera inzegnado a si fatto modo che in otto over diese botte li tagiava ogni grande rovere fosse fatto come se volesse, et quelli che lavorassero nella ditta piata stavano seguri et no podevano aver alguno pericolo et durò a questo modo otto zorni et otto notte”. Era quindi una barca legata alla riva e coperta da una struttura a testugine che proteggeva i meccanismi e gli uomini che dovevano lavorare.
E’ sensato credere che i pali furono tagliati a partire da monte, scendendo la corrente e se una decina di colpi erano sufficienti a eliminare il pericolo di un palo di rovere appuntito, il fatto che i veneziani abbiano lavorato ininterrottamente ai tagli per otto giorni ci fornisce il metro per calcolare l’impegno dei di Prata per la difesa.
Il cattivo tempo portò con sé una piena consistente che permise ai veneziani di manovrare meglio. La città era attaccabile solo dalle barche e probabilmente dovette soffrire qualche tentativo di conquista che sopportò. Del resto i di Prata all’interno delle mura avevano un vero e proprio esercito per l’epoca: trecento fanti, centoventicinque cavalieri e quasi duecento abitanti rimasti a difendere le loro case e i propri averi.
La città di Prata non cadde per il valore dell’esercito veneziano, ma si dovette arrendere all’assedio probabilmente per fame. I veneziani proposero una resa onorevole ai di Prata convincendoli che era meglio salvare la pelle piuttosto che attendere ancora gli aiuti che non sarebbero mai arrivati.
Le trattative si svolsero sulle rive del Meduna: “li Ambassadori tornò dentro la terra et feseno lo suo Consegio de accordarse et de dar la terra liberamente alla Signoria, exepto che li soldati Ongari dovessero andar via et lassar le arme, et cusì li fesseno et habudo che avé li nostri la terra, subitamente li cazzano fuori tuti li villani et tuti li soldati, et questo fo alli 23 del mese di settembre del 1419, et ne era nella ditta fortezza Misser Nicolaus fradello de Missier Vielmin da Prata con suo nevodo fiol de Misser Vielmin con Villani.
Non è da escludere che la resa incruenta della città (terra) prevedesse l’onore delle armi per la famiglia feudale e i cittadini. Certo i difensori erano allo stremo per la mancanza di cibo, mentre invece abbandonavano le armi: “Aveva pochissima victuaria, ma assai monitione d’arme”.
Una volta svuotata la città l’ordine fu quello di distruggere ogni edificio e ogni opera al di fuori delle chiese. Prata doveva diventare un esempio per tutti i castellani del Friuli
L’esemplare punizione forse può solo essere letta in relazione alla volontà veneziana di eliminare un pericoloso concorrente di uno scalo da sempre fedele alla serenissima, quello di Portobuffolé. La città, il porto e il ponte sul Meduna costituivano un nodo che da più di due secoli era una spina nel fianco del porto su Livenza. Il fatto che parte dell’originaria giurisdizione dei di Prata sia stata assegnata a Portobuffolé potrebbe avvalorare questa ipotesi.


 
Sacile presenta nella sua geografia una situazione del tutto analoga a quella di Prata. Anche qui il fiume si muoveva con ampi meandri che una volta tagliati avevano dato vita a due isole contrapposte, quella della città in basso e quella
 
 

La chiesa dei cavalieri di San Giovanni

A fianco delle strutture portuali di Prata sorsero ben due ospedali per i pellegrini e i mercanti in transito. Uno era gestito dalla confraternita dei Battuti, mentre l’altro era dei cavalieri di San Giovanni. Questo ospedale aveva una importante chiesa dedicata al santo protettore e in questo edificio la famiglia signorile si faceva seppellire. Quando i veneziani distrussero la città lasciarono intatte le proprietà dei giovanniti anche se all’interno erano e sono conservate le spoglie dei principali componenti della famiglia feudale. Con il tempo la chiesa e l’ospedale dei serviti scomparve e non diversamente crollarono anche gli edifici laici di San Giovanni.

L’aspetto attuale della chiesetta è quello assunto nel XIV secolo, ma al suo interno conserva ancora preziose testimonianze della scultura gotica in Friuli, quali i sigilli tombali, trecenteschi con la raffigurazione dei presbiteri Giacomo da Prata (1330) e Bonaccorso (1337), l’arca di Pileo da Prata (1325) e soprattutto quella di Nicolò da Prata e Caterina di Castrucco (1344). Quest’ultima è arricchita dalle figure in bassorilievo della Madonna con Bambino e dei Ss. Francesco e Giovanni Battista, ed è considerata opera di un collaboratore dello scultore veneto Andriolo de Santi.

Nei muri durante i recenti restauri sono emersi anche importanti affreschi cinquecenteschi, mentre sull’altare c’è una pala del ‘600.

 

 
 
 
 

Il passo per Visinale e villa Gozzi

In età moderna lungo il corso del Meduna si consolidarono due traghetti o passi importanti, quello sulla confluenza del Noncello e quello di Visinale. La mappa mostra la zattera che faceva servizio al passo e che dipendeva dalla famiglia Gozzi che a Visinale di Sotto avevano una importante villa di residenza. I Gozzi erano importanti nel ‘700 per il ruolo assunto da Gasparo e Carlo nell’ambiente culturale di Venezia. Il primo fu un protogiornalista mentre il secondo un raffinato commediografo. Qui invece risiedevano per lunghi periodi durante l’anno per motivi di villeggiatura ma anche per controllare le entrate che provenivano da una azienda agricola relativamente grande.
Gasparo amava scherzare con gli amici su questi suoi soggiorni: “ancora non mi sa male trovarmi qui soletto, e Vicinale mi piace: ma è veleno che non uccide subito”. Alla signora Mastraca raccontava la sua insonnia e le visite al passo della barca: “Voi entrate in casa; ed io vado al traghetto. Quella è l’ora che mi comincia un poco la quiete. Vedete che spasso è il mio. Prendo in mano il mio bastoncello, come un mezzo zoppo”.
Presso il passo attraccava anche il traghetto che collegava Pordenone con Venezia e attraverso il quale l’intellettuale inviava e riceveva merci, ma anche libri e lettere dagli amici e parenti: “è capitato patron Marta stamattina: e col suo venire ho ricevuto legna, vino, capponi; siccome con la barca de’ passeggieri, farina, dindi, scatola, eccetera”.
Il passo rimase in funzione fino alla costruzione del ponte in acciaio di Prata.
Oggi nei pressi del traghetto è stato costruito un pontile per le imbarcazioni.


Ritratto di Gasparo Gozzi
Ritratto di Carlo Gozzi

Il ponte vecchio sul Meduna

Il collegamento con Visinale attraverso la barca del passo si trovava in una posizione comoda per il medioevo ma non di certo per la nuova Prata che a partire dal ‘500 si era sviluppata lungo un rettifilo di nuovo impianto consolidatosi con la costruzione della villa dei veneziano Memmo (ora sede municipale) e quella della nuova chiesa di Santa Lucia che andò a sostituire quella che era rimasta in balia delle acque del Meduna. La nuova Prata si era espansa su un settore alto del paese e già nell’ottocento diventava evidente a tutti che superando il Meduna prolungando il lungo vialone di Prata di Sotto si sarebbe arrivati immediatamente al traghetto di Visinale di Sopra: “L’unica congiunzione attuale è rappresentata in quella località. da un passo a barca, situato in posizione. malagevol ; talchè di frequente rimane interrotta la comunicazione fra le prospere zone divise dal Meduna, arrestando con ciò i commerci che si svolgerebbero attivi con uno stabile e sicuro passaggio”.
Le prime intenzioni furono nel 1883 ma c’erano profonde resistenze per la soppressione del tradizionale traghetto nelle mani dei Passadori che con le loro barche trasportavano merci e persone da una sponda all’altra quando questo era possibile.
Il progetto fu lunghissimo e nel 1911 la prefettura rispedì indietro i disegni al comune di Prata per ottenere delle modifiche. Nel 1913, in vista della guerra, le attenzioni anche per questo ponte cambiarono e l’ing. Luigi Querini predispose un progetto che ottenne i finanziamenti.
Il ponte fu costruito solo nel 1913, ma a seguito della disfatta di Caporetto nel 1917 il Ponte di ferro fu minato e fatto saltare. Successivamente fu ripristinato sommariamente e reso percorribile usando travi di legno. Furono immediatamente necessari lavori di ricostruzione e consolidamento.
Finalmente il 24 giugno 1921 il ponte fu riaperto al transito e una decina di anni fa è stato ristrutturato perché ha una importante funzione mantenendo i collegamenti tra le due sponde per un traffico locale e per la ciclabilità.


Serie di foto che mostrano la ricostruzione del ponte nel dopoguerra
 
 
 

Villa Brunetta

Tra Prata di Sopra e di sotto nel Settecento la famiglia Brunetta costruì una bellissima villa veneta che aveva un accesso dalla via d’acqua e uno dalla via di terra. con forme neoclassiche. Il complesso fu costruito fra il 1780 e il 1800 con forme di una moderna e razionale villa veneta con l’insolita distribuzione su quattro piani. L’edificio è a pianta quadrata con collegati due bracci, uno a “L” che ne continua il fronte verso nord-ovest e un altro a “U”, che è unito all’edificio padronale sul lato sud-est. La villa rivolge quindi l’affaccio principale a nordovest, ma presenta un fronte secondario molto simile, non in opposizione a quello principale, ma posto sul lato adiacente a sud- ovest, mentre gli altri due prospetti sono collegati agli edifici rustici. La pianta del corpo principale è pressoché quadrata, a sua volta suddivisa in nove quadrati. Le facciate vengono coronate da una cornice di gronda a modiglioni, che si innalza in un timpano inquadrante lo stemma della famiglia. Notevoli sono anche gli interni, dove si rileva la presenza di pavimenti in terrazzo alla veneziana, di affreschi, caminetti, stucchi e rivestimenti in maiolica a temi marinari e naturali. Il parco formale era disegnato e segnato da una serie di colonne neoclassiche sormontate da statue settecentesche provenienti da villa Coldumer di Motta di Livenza.


 

Il vecchio castello di Prata e la chiesa di San Simone

Gli storici vorrebbero che il castello fosse a Prataviera, ossia “Prata Vecchia”, documentata già nel 1262. Le strutture castellane descritte nel testamento di Guecello di Prata ricordava un “bifredum et castellarium antiquitus factum Prate veteris”, sembra identificare una sorta di doppia struttura fortificata. Il battifredo, o belfredo, era una sorta di torre di avvistamento dotata di una campana per lanciare un eventuale allarme, molto spesso in legno, mentre il castellarium è un termine che potrebbe designare una struttura difensiva non limitata alla sola residenza del signore e dei suoi armati, ma a una sorta di borgo castellano fortificato. Viene facile riconoscere questo ambiente come una forma consolidata attorno al piccolo dosso sul quale sorge la Chiesetta dei Ss. Simone e Giuda. Alle spalle della stessa c’è anche una piccola motta di terra che poteva far parte di un disegno castellano costruito in terra e legno, tanto più che la chiesetta è ricordata nel testamento di Guecello II di Prata il 7 agosto 1262. L’edificio esistente è senza dubbio successivo e conserva nell’abside memoria della decorazione rinascimentale: affreschi con i Dottori della Chiesa nelle vele delle volte ed una Crocifissione nella parete di fondo, e poi il Sacrificio di Caino e Abele e l’Annunciazione nell’arco trionfale e Sante nel sottarco attribuibili al pittore Pietro Gorizio e databili al 1498.
Dello stesso periodo è anche un’altra opera che si trova vicino alla chiesetta, un capitello stradale con una Madonna con Bambino dipinta da Gianfrancesco da Tolmezzo intorno al 1500.
Del 1598 sono due figure inquadrate da finte cornici in pietra. La parte destra, mostra un angelo in preghiera inginocchiato , il secondo riquadro raffigura san Valentino che regge nella mano sinistra un calice con l’ostia e la palma del martirio e solleva la destra a benedire madre, padre e figlio inginocchiati ai suoi piedi con le mani giunte in preghiera. All’interno della chiesa c’è un altare della prima metà del ‘700 e una settecentesca Madonna Immacolata che schiaccia la testa del serpente tra San Mattia e San Simone.
Poco distante dalla chiesa, nei pressi dell’incrocio, un piccolo capitello conserva una bellissima madonna di Gianfrancesco da Tolmezzo.


 
 
 
 

La confluenza tra Noncello e Meduna

L’unione del Noncello e nel Meduna è un punto importante da un punto di vista geografico. E’ qui che si esprime il particolare fenomeno delle piene del Meduna che raggiunta una certa quota tornano verso monte provocando una piena statica a Pordenone con quelli che sono ancora oggi le caratteristiche alluvioni di tutto il corso del fiume di risorgiva. Lo ricorda anche una nota di G.B. Pomo del 1 ottobre 1747: “Dalle dirote pioggie cadute ieri e l’altro ieri, fu in hoggi un’escrescenza d’acque molto grande, poiché il nostro fiume Noncello, non potendo scorere a motivo della Meduna, che era quasi fuori delle rive, si gonfiò talmente che era venuta l’acqua sino dentro la becaria e dentro la chiesa della SS.ma Trinità [cosiché si andava per la chiesa] in batello.
Non a caso è qui che nel 1919 l’ing. Augusto Mior progettò una chiusa, su modello di quelle francesi, per rendere il Noncello indipendente dalle stravaganze della Meduna garantendo comunque il trasporto fluviale fino al porto.
Il progetto non fu attuato e la costruzione dei nuovi ponti negli anni ’20, quello per Pordenone e quello sul Sentiron per Porcia hanno cancellato ogni memoria del ruolo antropologico che aveva questo luogo, presso il quale ogni giorno si incrociavano centinaia di persone per usufruire del servizio di passo. In sostanza qui, anche se oggi sembra che la confluenza sia caratterizzata da un ambiente naturale simile al resto del corso d’acqua, c’era un importante attività portuale. Qui si incrociavano le zattere con le quali si faceva fluitare la legna verso Venezia, ma qui cambiava anche il tiro degli animali per i burchi diretti a Pordenone. Tutto questo si svolgeva sotto agli occhi delle persone che quasi sempre per necessità e lavoro dovevano transitare sulla barca del passo.


Foto aerea della confluenza

Rondover, un villaggio sui dossi

Le frequenti piene del Noncello Hanno sempre impedito di costruire sulle rive del fiume di risorgiva. Nonostante il suo piccolo bacino idrografico le piene del Meduna alzano ancora oggi le acque su una superficie che in antico era stata il letto del Cellina. Per questo motivo un fiume privo di velocità e capacità erosiva si colloca in una valle molto ampia caratterizzata da alti dossi.
Insediarsi lungo il fiume era sostanzialmente impossibile e le poche case costruite in età medievale riducendo le foreste pubbliche si collocavano sopra a dei dossi che sembrano quasi delle colline. Rondover è uno di questi insediamenti nati per espandere le coltivazioni sui settori asciutti e per sfruttare le praterie nei tratti più bassi e alluvionati periodicamente.
A Rondover questo carattere è ben evidente nelle prime cartografie che descrivono il luogo e che mostrano come tutto si sia sviluppato da una grande casa padronale oggi distrutta definita alcuni decenni fa “villa antica”. Si trattava probabilmente di un edificio di età rinascimentale frutto di ricostruzioni di strutture più antiche e caratterizzato da una trifora rinascimentale al primo piano.
Lungo il Noncello c’era pure un importante ponte controllato dai signori di Porcia e utilizzato per raggiungere la giurisdizione di Corva ma non sappiamo dove fosse in relazione al fatto che doveva evitare di attraversare i territori di Pordenone sottoposti all’Austria. Il 22 giugno del 1273 i signori di Porcia e gli emissari del Patriarca di Aquileia, anche a nome dell’imperatore, si accordarono “per far un ponte sopra il Noncel”. Probabilmente il ponte sarebbe sorto in occasione di Rondover per appoggiarsi alle zone più alte di Valle.
Lungo il Noncello da qualche anno esiste un demanio idraulico che permette il transito e la manutenzione del fiume in uno dei tratti più belli e meno costruiti del suo corso.


1805 Il verde lungo il Noncello testimonia un paesaggio di praterie umide lungo il Noncello mentre in occasione di Rondover gli arativi raggiungevano quasi il fiume
1829 Probabilmente il ponte sul Noncello sarebbe sorto lungo la direttrice Rondover/San Leonardo
 

Il porto vecchio di Porcia

Il castello di Porcia era sorto lungo un corso d’acqua che non era navigabile anche se le sue incisioni profonde avevano convinto i signori locali a porre li la loro dimora fortificata. Quando si consolidò il potere statale del Patriarca di Aquileia (1077) la zona di Pordenone rimase in capo ai principi carinziani e Porcia si trovò a materializzare lungo il Noncello una sorta di confine statale. E’ presumibile che in quell’occasione il castello abbia attrezzato un suo porto lungo il Noncello poco più a valle della città e delle strutture portuali che gli austriaci avevano attrezzato a valle della Curia di Naonis. La borgata di Porto Vieli (Porto vecchio) conserva nel nome la storia di una struttura portuale costruita probabilmente in legno prima del porto “nuovo”, quindi prima della fondazione della cittadina di Prata sul Meduna. Questo era, insieme a Rondover, il punto in cui i terreni solidi e alti sul fiume non soffrivano il rischio di essere allagati e come mostrano le cartografie ottocentesche qui la strada carrozzabile arrivava fino alla sponda del fiume.
Oggi sul posto si può ancora vedere un importante terrazzo spianato alto sul fiume segnato da scarpate ripidissime. Questa struttura era stata in funzione per un tempo relativamente breve assistendo naviganti e pellegrini impegnati sulla via del Noncello.


Foto aerea dell’ambiente fluviale di Portovieli.
 

1805 La mappa mostra come la strada toccasse un’ansa ampia del Noncello

Una motta medievale

Che il controllo della navigazione lungo un confine medievale tra Austria e Patria del Friuli fosse molto importante è testimoniato dalla presenza straordinaria di una motta per una torre medievale in legno. La riva destra del fiume era friulana, mentre quella sinistra era austriaca e strutture di questo tipo (una simile era a Vallenoncello) permettevano di controllare a vista i traffici e gli abusi nel trasporto fluviale. La collinetta ha una forma esplicitamente artificiale nonostante si appoggi a un dosso argilloso. Ancora oggi, durante le piene, la piccola motta emerge in un mare d’acqua.
Il tipo edilizio era tipico del basso medioevo e prevedeva la costruzione di un rilievo in terra il più ripido possibile, circondato da una selva di pali appuntiti e poi la costruzione di una torre in legno al vertice della motta.
Sembra difficile pensare che alla motta facesse riferimento qualche altra architettura o un villaggio considerato il fatto che di tanto in tanto i prati lungo il fiume finivano per essere sommersi.

La immagini di corredo di motte francesi sono puramente indicative dell’aspetto che questo fortilizio friulano poteva avere tenendo a vista, oltre il fiume i territori controllati dagli austriaci.


 
 
 
 
 

La dogana di Correr

Le località denominate “dogana” a valle di Pordenone sono due. Una ricorda il porto costruito a partire dalla fine del ‘700 a valle di Pordenone quando le strutture poste all’altezza della porta friulana furono allontanate per costruire il ponte in pietra di Adamo ed Eva. Quella più antica, detta dogana vecchia era invece sulla destra del Noncello ed era una struttura speciale costruita alla metà del ‘400 insieme a un canale idraulico, la Brentella, che faceva arrivare sul Noncello la legna tagliata in Val Cellina. Questo traffico di legna da ardere per Venezia era stato predisposto dai signori di Maniago, ma all’inizio del ‘600 fu
venduto ai veneziani Correr che a Rorai Piccolo costruirono una importante villa veneta. In questa zona, su questa bassa riva un tempo tenuta a prato, la legna veniva raccolta e trasformata in zattere adatte per scendere il fiume. Qui, nonostante le alluvioni periodiche, i Correr costruirono una casa che ospitava i soprintendenti al commercio del legname. In seguito gli investimenti della famiglia veneziana aumentarono nonostante le continue inondazioni. Giovan Battista Pomo ricorda che nel 1744 Girolamo Correr fece costruire anche uno squero, quindi un cantiere per costruire i burchi per la navigazione, anche in considerazione che sulla riva sinistra del fiume attraccavano le barche del traghetto di Pordenone: “. Dal N.H. S. E. Girolamo Corer fu fatto fare un squero qui alla Doana presso l’osteria di detto N.H. e attaco il nostro fiume Noncello, dove va a sbocar la brentela che conduce le faghere, dove per la prima volta nel detto squero paron Simon Stochetto, uno de’ barcaruoli della fraglia di questo traghetto, fece fare da squerarioli buranelli una peota nuova e grande, la quale essendo statta terminata li giorni passati, prima di gitarla in acqua fece questa matina il detto paron Stochetto cantar una messa all’altare del santissimo e miracoloso Crocefisso nella chiesa delle monache di questa città, fece un sontuoso pranso a tutti li suoi padroni e amici e questa sera, circa le hore ventidue, concorendovi una quantità di gente d’ogni età e d’ogni sesso, nobili e plebei, essendovi quelle rive di qua e di là del fiume Noncello tutte piene di gente per la curiosità di vedere quella nuova barca andar nell’acqua”. Dell’edificio della Dogana, dell’osteria e dello squero oggi non rimane traccia.


Questa carta del 1771 mostra che lo squero all’epoca non c’era più mentre rimaneva evidente il ramo della Brentella che dal ponte del Serraglio seguiva la strada
1829 La Dogana nuova e quella vecchia avevano sostanzialmente funzioni diverse. La riva sinistra era il porto di Pordenone, quella destra lo spazio per la legna che proveniva dalla Valcellina.
 
 

Il serraglio della legna

Poco sappiamo di come funzionasse il Serraglio della Brentella, mentre è ancora oggi evidente la sua posizione che toccava l’attuale strada. Con ogni probabilità la legna veniva fermata poco a monte del ponte per impedire che con la forza dell’acqua le fascine provocassero danni al ponte in legno, mentre i occasione di piene l’acqua poteva filtrare nel Noncello. Qui, come mostrano le cartografie storiche, la legna veniva fatta fluitare su un canale parallelo alla strada e da qui veniva tirata a riva per un controllo, il pagamento del pedaggio e per formare le zattere che sarebbero scese lungo il Noncello, la Meduna e la Livenza fino alla laguna e a Murano.
La mappa topografica del 1829 mostra in modo chiaro l’originaria erosione del corso d’acqua sul quale fu immessa la Brentella, il canale artificiale alimentato dalla Cellina e che attraversava tutta l’alta pianura pordenonese. Il canale passava a fianco della bella villa veneta dei Correr e poi si incassava tra sponde ripide e prative verso il Noncello. La mappa sembra mostrare che la deviazione aveva portato la confluenza a valle della Dogana in una zona esondabile.
Il 5 novembre 1748 Pomo ricordava una importante piena che sconvolse il deposito della legna distribuito tra il Serraglio e la Dogana: “Sormontò ancora tutte quelle faghere che erano alla riva della Doana impassate e destinate per le fornaci di Murano, le quali sarano statte sotto duemilla e cinquecento passa, levandole tutte quante, conducendole qua e là, che nel calo dell acque sono poi restate parte ne’ campi, né prati e nelle valli e fossi, che con spesa grande di chi erano sono statte alla fine ricuperatte quasi tutte”.